L'Università di Chicago guida la rivolta contro il maccartismo pol. corr.
Roma. Il termine man, cioè uomo, è da evitare, perché troppo maschilista. Meglio utilizzare le parole essere umano, individuo o persone. Cameraman? Nemmeno. Meglio camera operator. Marito e moglie va rimpiazzato poi con il più asessuato partner. Sono solo alcune delle indicazioni contenute nelle “Linee guida per un linguaggio gender-inclusive” stilate nel 2015 dall’Ufficio comunicazione dell’Università di Princeton e filtrate sulla stampa la scorsa settimana. “E’ una cosa stupenda, la distruzione delle parole”, scriveva George Orwell nel romanzo “1984”. Purtroppo, però, quella in atto in uno dei più noti atenei dell’Ivy League non è una distopia. Piuttosto è una forma di “maoismo americanizzato”. Così Daniel Henninger, commentatore del Wall Street Journal, ha definito una volta l’alta marea del politicamente corretto che riduce gli spazi per la libertà d’espressione. A partire dagli atenei statunitensi. Proprio nelle università d’oltreoceano, sempre più spesso, vengono brandite espressioni chiave come “identità”, “gender”, “diversità”, “inclusività”, “patriarcato”, “molestia sul posto di lavoro”, “maschi bianchi morti”, “sessismo”, “razzismo”, “privilegiato”, per annichilire certe discussioni. Lo schema dialogico – si fa per dire – implicito nel politicamente corretto è il seguente: io vinco, tu perdi, fattene una ragione e adeguati. Perciò vari pensatori, incluso il polacco Ryszard Legutko che abbiamo intervistato questa settimana sul Foglio, riconoscono delle radici totalitarie nel fenomeno in questione, giudicato da altri come l’impazzimento ossessivo e burocratizzato dell’originario concetto di “diversità”.
In tale panorama, spicca dunque l’iniziativa presa da un altro bastione dell’accademia americana, l’Università di Chicago. Il cui rettore, Jay Ellison, ha deciso di accogliere i nuovi studenti con queste parole: “Una volta che sarete qui scoprirete che una delle caratteristiche fondamentali dell’ateneo è il nostro impegno a tutelare la libertà di ricerca e di espressione. I membri della nostra comunità – prosegue la lettera – sono incoraggiati a parlare, a scrivere, ad ascoltare, a contestare e ad apprendere, senza temere censura alcuna”. Poi Ellison fa un riferimento esplicito ai tanti episodi da caccia alle streghe registrati in giro per l’America, tra convegni cancellati perché ritenuti inopportuni dai ricercatori, lezioni interrotte perché considerate offensive della sensibilità di alcune minoranze e addirittura statue e dipinti antichi censurati perché non sufficientemente anti colonialisti: “Il nostro impegno a favore della libertà accademica significa che non sosterremo i cosiddetti ‘trigger warnings’ (gli avvertimenti rispetto a scritti o discorsi che potrebbero contenere riflessioni traumatiche, ndr), che non annulleremo gli inviti agli oratori in ragione della natura controversa dei loro discorsi, che non giustificheremo la creazione di ‘safe spaces’ intellettuali all’interno dei quali le persone possano rifiutarsi di interagire con idee diverse dalle loro”. Insieme alla lettera, Ellison consiglia agli studenti un volume sulla storia della libertà d’insegnamento nel loro futuro ateneo. Ieri, sul Wall Street Journal, anche Robert J. Zimmer, matematico e preside dell’Università di Chicago, è intervenuto a sostegno del rettore Ellison per ribadire che “il free speech è la base di una vera educazione” e che “l’università non dovrebbe essere un santuario per il proprio personale conforto ma piuttosto un crogiuolo dove si confrontano idee diverse”. A costo di mettere in dubbio “la certezza morale” di quei “gruppi” che ritengono i propri “valori e credenze come gli unici corretti, ai quali tutti gli altri dovrebbero aderire”. Dall’alma mater del premio Nobel Milton Friedman, da quella fucina di liberali e liberisti che viene spesso bollata dal Cretino collettivo come la culla del “pensiero unico neoliberista” e quindi l’origine di tutti i mali del mondo, arriva un’altra lezione di libertà. Viva la Scuola di Chicago.