Privatizzare vendendo ai big statali cinesi è davvero privatizzare?
Che le privatizzazioni siano sempre la soluzione migliore per risanare un sistema economico è tesi dibattuta. Per quanto mi riguarda non penso che lo stato sia sempre il problema. Con Mariana Mazzucato, credo che la mano pubblica un ruolo anche nelle questioni economiche debba averlo. Un ruolo certo ben delimitato, in ambiti di grande rilevanza strategica e in settori funzionali alla salute della sfera privata. Ma è comunque un ruolo e importante. E’ questione di casi concreti, serve pragmatismo ed è inopportuno il dogmatismo manicheo di tanti integralisti di mercato.
Risolta la questione ontologica circa le privatizzazioni, qui si intende segnalare una serie di casi del tutto anomali. Nel 2014 il Fondo Strategico Italiano cede il 40 per cento di Ansaldo Energia alla Shanghai Electric, azienda di proprietà dello stato cinese; l’Eni cede il 2 per cento alla Banca centrale cinese (pubblica), che rileva anche il 2 per cento di Enel. Nel luglio dello stesso anno, il colosso di Stato cinese, State Grid, acquisisce il 35 per cento di Cdp Reti (Terna e Snam), azienda controllata dal ministero dell’Economia. In parte diverso il caso della Pirelli, storica azienda del salotto buono del capitalismo milanese, la cui maggioranza è stata acquisita da ChemChina, altro colosso di stato cinese di cui ha scritto il Foglio. Sotto la Madonnina i cinesi, che per volontà di Xi Jinping mirano ai vertici del calcio mondiale, si sono comprati anche il Milan. L’acquirente Haixia Capital, manco a dirlo, è un fondo di stato. Dati questi precedenti, c’è da immaginare che lo shopping cinese continui in futuro, forse partecipando alla privatizzazione di uno dei grandi scrigni della ricchezza privata di questo paese, Poste italiane, o di quell’attore strategico che è Cassa depositi e prestiti. L’elenco di queste acquisizioni non è completo. Tuttavia le considerazioni da fare potrebbero essere tante. Si potrebbe dibattere sulla reale natura del sistema economico cinese, e chiedersi se esso sia realmente un’economia di mercato. In autunno, Stati Uniti e Unione dovranno pronunciarsi sullo status dell’economia di Pechino ai fini delle regole del Wto, ed è probabile che dicano di no. Si potrebbe disquisire sul fatto che in Cina il Partito comunista, come un’edera, ha occupato lo stato. E a quel punto si potrebbe essere tentati di fare una battuta: i comunisti cinesi non potendo sconfiggere il capitalismo occidentale hanno deciso di comprarselo. Meglio non fare battute. Però almeno chiediamoci le ragioni di tali acquisizioni da parte dei colossi di stato cinesi.
Sulla scorta di “The Post Modern State and the World Order” di Robert Cooper, si potrebbe dire che il fine di Pechino, che vede il sistema internazionale in un’ottica wesfaliana, vale a dire un’arena dove gli stati competono in una logica a somma zero, è l’acquisizione nei paesi sviluppati di marchi, brevetti e tecnologie che una “società chiusa” come quella cinese ancora non riesce a produrre. Logica a somma zero: forse è per questo che gli Stati Uniti sono così restii nel dare l’ok a questi investimenti, anzi spesso li bloccano nonostante la recente e significativa eccezione nel caso Syngenta-ChemChina. Tuttavia, le questioni che quell’elenco suscita sono tante, troppe e portano lontano e in terreni minati. Conviene allora accantonarle e porre delle semplici domande. Che privatizzazioni sono quelle che portano un'azienda di proprietà dello Stato italiano a diventare proprietà di uno Stato estero, nello specifico quello cinese, alla cui guida vi è un solo partito? E poi: non è paradossale che, mentre si ripete in maniera compulsiva che l’unica risposta a tutti i problemi è più mercato, più impresa, più competitività, ci siano grandi imprese private che vengono cedute alla mano pubblica di un altro stato?