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Bruxelles contro Apple e Dublino: due concezioni di diritto e concorrenza

Carlo Lottieri
I due fronti sono divisi. Dalla diversa valutazione dell’eguaglianza di fronte al diritto, all'idea di tassazione, alla competizione tra istituzioni.

La vicenda Apple/Eire/Ue sta dividendo l’opinione pubblica. Molti si sono schierati a favore della decisione dell’Antitrust europeo di colpire la multinazionale e la stessa Irlanda, accusata di avere offerto condizioni fiscali di favore, garantendo “aiuti di stato”; altri commentatori sono invece con Apple e con Dublino. E i motivi di conflitto tra queste visioni sono molti. In primo luogo, liberali e libertari sono portati a rigettare la decisione europea per la loro avversione a ogni tassa. Per chi ritiene che ogni prelievo tributario sia un’aggressione ai diritti di proprietà, la possibilità per Apple di sfuggire a tutto ciò non può essere condannata. Certo sarebbe meglio che tutti potessero usufruire di quelle condizioni, ma un antistatalista non contesta il diritto – per chi può – di sottrarsi al Leviatano. C’è però molto altro a dividere i due fronti. In particolare, vi è una diversa valutazione dell’eguaglianza di fronte al diritto. Chi difende la pena comminata alla Apple insiste nell’evidenziare quanto sia assurdo che l’impresa americana (grazie a un tax ruling concordato) goda di un privilegio. L’argomento è che ogni settore dovrebbe avere il medesimo trattamento. Ma perché ogni settore? E chi ne definisce i confini? Se meno tasse ad Apple è aiuto di stato, non è aiuto di stato anche assicurare tasse inferiori alle imprese che producono energia verde o che operano nella cultura? Senza considerare che l’argomento difensivo irlandese è che quel tax ruling non è stato negato ad altri soggetti: si facciano avanti e saranno valutati.

 


 


 

E’ pure opinabile l’idea che l’eguaglianza dinanzi alla legge sia sempre un valore: tra una situazione in cui tutti si è egualmente colpiti da una legge ingiusta e una in cui qualcuno riesce a sottrarsi, meglio la seconda ipotesi. Ma qui abbiamo a che fare con un vero conflitto culturale: una faglia profonda che separa le isole britanniche e il continente. Da noi, in effetti, diritto è sempre sinonimo di eguaglianza, anche nell’ingiustizia. Nella tradizione britannica, che ha il suo atto costitutivo simbolico in privilegi concessi a baroni (la Magna Charta), il diritto è soprattutto libertà, anche in privilegi che poi, con il tempo, possono esseri estesi ad altri. Per giunta gli irlandesi si sono mossi con pragmatismo: hanno colto la possibilità di avere, a casa loro, un’impresa colossale, con i benefici che ne derivano. Hanno introdotto condizioni di favore, come già quando avevano fatto creando porti franchi e aree a bassa fiscalità. E se oggi in Irlanda la legislazione prevede un corporate tax rate del 12,5 per cento è pure grazie a quelle scelte, che hanno posto le premesse per prelievi assai contenuti nell’intera repubblica.

 

Quanti sono schierati contro l’Eire, e vogliono quindi che il governo irlandese intaschi quei 13 miliardi che ora rifiuta, equiparano poi una tassa in meno a un aiuto di Stato. Sul piano contabile è la stessa cosa, certo, ma dovrebbe comunque permanere una differenza tra il mantenere il controllo sulla ricchezza prodotta e, al contrario, disporre della ricchezza altrui. Nel primo caso abbiamo la situazione di Apple, mentre nel secondo abbiamo aziende come la Rai, che vivono di soldi che i contribuenti sono costretti a dare; e solo in questo caso si dovrebbe parlare di “aiuto di Stato”.

 

Un ultimo motivo di conflitto è sulla competizione tra istituzioni. Lo ha ricordato molto bene Massimiliano Trovato ieri su queste pagine: la via irlandese alla prosperità è quella di una piccola comunità che si gestisce da sé, attrae imprese, stimola gli altri (il Regno Unito, ad esempio) ad abbassare le proprie aliquote. L’Europa che colpisce la Apple è contro questa concorrenza tra territori: perché sa che quando al di là di una frontiera si possono trovare condizioni migliori, la mobilità dei soggetti limita il potere dei governanti. In un’Europa all’irlandese realtà come la Francia e l’Italia sarebbero costrette a ridurre spese ed entrate. Ed è proprio questo che a Bruxelles non si vuole.