I tabù dell'Europa sulle tasse. Sportellate liberali sul caso Apple
Al direttore - Sgombriamo subito il campo da un equivoco. Anzi, direi meglio, da una bufala. La vicenda Apple/Irlanda/Ue non c’entra nulla con la millenaria battaglia tra liberisti e statalisti. Chi lo afferma o non sa quel che dice o decide di dire stupidaggini. Non riteniamo di dover ricevere lezioni di liberismo da Tim Cook, anche se tanto abbiamo da imparare in materia dai maestri del liberalismo.
Cook fa quello che più conviene alla sua azienda e fa benissimo a farlo. Premetto che sono un famelico consumatore di prodotti Apple e credo che, se la mia tesi prevarrà, li dovrò pagare di più. Tuttavia non posso esimermi, anche perchè in tanti in queste ore chiedono un parere al riguardo alla Fondazione Einaudi, dall’esprimere delle perplessità sulle modalità con cui viene approcciata la questione. I presunti liberisti issando il vessillo “meno tasse si pagano meglio è”, acriticamente sostengono le ragioni dell’Irlanda e dell’Apple, criticando di converso la cattiva Ue allorchè si intromette in questioni che non dovrebbero riguardarla. Ebbene, non è proprio così. Un professionista italiano produttore di reddito e di ricchezza (posti di lavoro, consumi, ecc.) vittima di tassazione che sfiora, e in alcuni casi sfora, il 70 per cento, non capisce più la differenza tra tassazione e vessazione. Si sente soffocato, nel senso che gli manca l’aria e ha forte la tentazione di mandare tutto proprio “all’aria”. Avverte che lo stato non è più regolatore di nulla, ma semplicemente un nemico da cui difendersi. Ecco: questa, ad esempio, è la situazione della tassazione ai giorni nostri in Italia. Ma quando si apprende che il colosso Apple paga in Irlanda – paese della Ue, che gode dei benefici di farne parte – un’ aliquota dello 0,005 per cento (non è un refuso) cosa deve pensare quel povero cittadino di un altro paese europeo? L’Irlanda non è un’isoletta del Pacifico, ma uno stato europeo che virtuosamente ha un’aliquota del 12,5 per cento sui redditi prodotti dalle imprese. Paese felice e governanti lungimiranti, quelli che impongono tasse eque a chi produce e investe sul loro territorio. Ma quando quello stesso governo decide di derogare all’aliquota d’imposta a ogni livello concordata e, ad personam si direbbe in Italia, decide di far pagare una cifra irrisoria di tasse – perchè di questo si tratta – a un’impresa che opera attraverso un paese europeo sul più importante mercato del mondo, in quel caso ce ne corre dal virtuosismo fiscale. Una qualche distorsione del mercato a me pare proprio venga a crearsi in quel caso.
Poi si può e si deve discutere sul principio dell’irretroattività: se possibile o meno applicarla; da quando decorre; come ci si dovrà regolare da ora in avanti. Altrettanto andrà fatto sulla spropositata somma da richiedere ad Apple da parte dell’Irlanda; anche questo è un aspetto legato alla retroattività. Ma su una cosa siamo intransigenti: non ci prendano in giro, liberismo e statalismo in questa vicenda non c’entrano nulla.
Giuseppe Benedetto, presidente della Fondazione Luigi Einaudi
Caro presidente, capisco il suo ragionamento, ma non mi convince, e le confesso che mi convince di più uno spunto formidabile offerto ieri da un bravo commentatore economico del Telegraph, Allister Heath. Il Telegraph, che ha sostenuto la campagna pro Brexit, sostiene, a ragione, che la scelta della Commissione europea, scelta protezionista, caro presidente, rafforza la decisione degli elettori inglesi di uscire dall’Unione europea. “Ci sono sempre state – scrive Heath – due tendenze in moto nell’Ue. Una pro concorrenza, pro mercato e pro libertà individuale. Un’altra centralista, iper interventista, iper protezionista. Quest’ultima tendenza ha vinto, in modo spettacolare. Da una parte lo si vede con l’accordo commerciale, ormai morto, tra America ed Europa. Dall’altra lo si vede con la guerra contro la concorrenza fiscale portata avanti dalla Commissione europea”. Heath, sostenendo che tutti gli inglesi dovrebbero essere grati a Bruxelles per aver mostrato, ancora una volta, il motivo per cui è stato giusto lasciare l’Unione europea, “un’entità ormai irrimediabilmente impostata su un percorso di declino a lungo termine”, fa un passo in avanti rispetto al suo ragionamento. Dice, giustamente, che il vero intento dell’Unione europea è quello di preservare il modello sociale democratico che tiene in vita, si fa per dire, l’Europa di oggi, con una forte pressione fiscale molto diffusa che è condizione essenziale per non intaccare i vecchi modelli di welfare dei paesi europei. E aggiunge, giustamente, che un sistema come quello europeo che introduce il criterio della retroattività delle sanzioni allontanerà sempre di più le grandi imprese dall’Unione europea. Domanda retorica del Telegraph: “How many City firms would, under such circumstances, still mull relocating anything more than a trivial number of their staff to Ireland or Luxembourg?”. Il problema dell’Europa non è quello di avere paesi che hanno tasse troppo basse. Il problema dell’Europa è quello di essere incapace di seguire l’unico modello che permetterebbe ai paesi di abbassare le tasse: aprire il mercato e fare non meno ma più leggi pro concorrenza.