Libere idee e libero mercato non sono di casa nella “libertaria” Silicon Valley
Roma. Nella mitologia mediatica contemporanea la Silicon Valley è depositaria della controcultura libertaria dei “figli dei fiori”, gli hippy, un movimento civile della San Francisco anni sessanta pacifista e contrario pressapoco a qualsiasi costrizione della libertà individuale. E’ una favola per beoti: la Silicon Valley non è e non sarà mai soltanto un’oasi delle libertà né un eremo per libertari ferventi. Semmai è il luogo di nascita della nuova aristocrazia mondiale dove l’ipocrisia è la regola, al pari di ogni altro contesto umano. L’evidenza è già stata spiattellata dall’insider Antonio García Martínez che ha raccontato con ironia e senza timore reverenziale i suoi cinque anni nella Valley, da startupper a sviluppatore di Facebook, nel libro “Chaos Monkey” (HarperCollins) menando fendenti a molti suoi (ex) colleghi.
Ma le contraddizioni tra la professione di fede libertaria e una ben diversa prassi d’azione emergono con maggiore evidenza dal caso di Peter Andreas Thiel, magnate della Silicon Valley, venture capitalist tedesco-americano che è tra gli investitori del social network Facebook ed è stato tra i fondatori di PayPal, un popolare servizio di pagamenti online. Thiel è da iscrivere alla categoria degli spiriti liberi: approva la creazione di “comunità acquatiche”, metropoli in mezzo al mare, autosufficienti ed estranee a qualsiasi giurisdizione; a PayPal immaginava una “nuova moneta mondiale, libera dal controllo dei governi”. Tuttavia la filosofia libertaria di Thiel pare a volte limitata all’enunciazione di essa: il suo entusiasmo per la trasgressione delle regole scema infatti quando è lui stesso a soffrirne, come notava il columnist del Financial Times John Grapper.
Peter Andreas Thiel
Nove anni fa il popolare sito di informazione Gawker.com aveva rivelato l’omossessualità di Thiel e lui si è vendicato finanziando con 10 milioni di dollari varie cause intentate alla Gawker Media Company, che gestisce anche altri cinque siti web, facendo chiudere la piattaforma che ha pubblicato la notizia. Il fondatore di Gawker, il giornalista Nick Denton, ex financial Times, è un corsaro dell’informazione che si era trasferito da Londra a New York proprio per trovare terreno fertile a creare un modello di business giornalistico a suo dire pionieristico che condurrà a “un nuovo mondo di libertà illimitata”. Denton partiva dalla convinzione che l’imparzialità giornalistica è sopravvalutata e quindi è più onesto mischiare opinioni, emozioni e gossip con i fatti. Il modello di Denton non è affatto soppresso; post brevi, idee provenienti da ogni spazio della rete, soprattutto dai lettori, visualizzazione rapida, fanno macinare traffico alle sue piattaforme ma lui che pensava di essere espatriato nella terra delle libertà ha preso una batosta: condivide con Thiel le origini europee, le preferenze sessuali e un approccio visionario alle cose ma forse non si aspettava che la chiusura lampo del suo canale più popolare – nemmeno ai siti di informazione terroristica viene riservato simile destino, purtroppo – arrivasse per mano di uno spirito affine al suo.
Denton ha anche scoperto suo malgrado che l’ideologia dei manager della Valley è ambivalente quando si parla di rompere gli schemi. Nessun gigante, come Google, Facebook, Twitter, o nessun grande imprenditore, come Bill Gates o Elon Musk, ha finora preso le sue difese, come se il metodo di censura lui riservato non riguardasse anche l’élite del business digitale che ha fatto proprio della distruzione delle vecchie convenzioni un metodo operativo: la “disruption”, a quanto pare, è un dominio registrato in California. Quello dei big della Valley appare come un circuito autoreferenziale di tycoon – Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, è in visita in Italia per partecipare al matrimonio di Daniel Ek di Spotify prima che per fare visita agli studenti della Luiss di Roma o per salutare il Papa – che non rispecchia gli ideali libertari che proclama, nemmeno nella prassi di gestione dell’impresa. Nel 2014 Apple, Google, Intel e Adobe avevano patteggiato in sede civile per risolvere una causa Antitrust motivata dell’accusa di avere cospirato per abbassare i salari dei dipendenti e per non assumere gli uni i dipendenti degli altri, costituendo di fatto cartello per non farsi concorrenza.
La “meritocratica” Silicon Valley – dicono i critici – ha attentato alla meritocrazia peraltro rischiando di costringere ingegneri, programmatori e altri dipendenti all’immobilità del posto di lavoro. Facebook in quel caso non giudicò positivamente questa iniziativa, a differenza di Steve Jobs che l’aveva avallata. Non di meno però la creatura di Zuckerberg mostra a volte un attaggiamento non proprio “peace&love” verso gli sviluppatori di applicazioni del suo circuito. Non sono casi isolati quelli degli sviluppatori di “app Facebook-based” che si ritengono plagiati dal social network che, dopo un periodo di collaborazione, pubblica applicazioni simili o identiche a quelle di loro concezione. La potenza finanziaria dei colossi tecnologici non dà molta tranquillità in caso di controversia legale alla miriade di società ancillari che quindi soffrono per le invasioni di campo. Apple ha di recente lanciato l’applicazione “Salute” con contapassi, contachilometri, controllo del battito cardiaco eccetera. Altre applicazioni grandi e piccole dello stesso tipo probabilmente ne risentiranno perché di certo ogni volta che i giganti si muovono la vita delle startup diventa più dura. La libera concorrenza, il libero mercato, le libere idee non sembrano essere sempre di casa nella libertaria Silicon Valley.