Agustín Carstens, governatore della Banca Centrale del Messico (foto LaPresse)

Carstens, il banchiere centrale messicano che fustiga gli istinti protezionistici

Ugo Bertone
"Le economie leader del pianeta sono diventate più protezioniste sotto la pressione del calo della crescita e dei profitti delle industrie locali. E così, come accadde allora si rischia di allungare e render più profonda la crisi”.

Milano. Non c’è solo il muro di Donald Trump alla frontiera del Messico. O la rottura dei negoziati tra Europa e America del nord sul Ttip, il negoziato sui commerci così caro a Obama e appena liquidato quasi con disprezzo da Francia e Germania. Lo spettro del protezionismo non risparmia alcun cantone dell’economia globale. E cresce senza sosta, nonostante i proclami in senso contrario dei leader dei vari paesi: negli ultimi due anni i governi del G20 hanno preso 350 misure contro il libero scambio. L’allarme lo ha lanciato Agustín Carstens, l’autorevole governatore della Banca Centrale del Messico che nel 2011 molti paesi, non solo tra gli Emergenti, avrebbero voluto alla guida del Fondo monetario internazionale al posto della francese Christine Lagarde. Ma sul filo di lana la longilinea ed elegante parigina ebbe la meglio su Carstens, oggi 58 anni, sguardo sbarazzino, anzi sereno, e una stazza ampiamente sopra il quintale.

 

Non è un particolare insignificante in quest’epoca votata al look e ossessionata dall’obesità: e così a sbarrargli la via al vertice contribuì un blog dal titolo “ma ci meritiamo un banchiere obeso”, assolutamente inadatto per un ruolo a grave rischio di stress. Il nostro Agustín, confermando di avere un buon carattere, non se ne ebbe a male. Ma lungi dal mettersi a dieta Carstens, sposato con l’economista (e scrittrice di fiction) Catherine Mansell, tornò a Città del Messico dove, prima al ministero delle Finanze, poi alla Banca centrale, ha pilotato l’economia tra i marosi della crisi favorendo le privatizzazioni e la salite del bilancio pubblico, nonostante le critiche per una gestione troppo sparagnina per un paese comunque afflitto da gravi squilibri sociali. Carstens si era presentato come “un ragazzo della generazione 12 e 50”, quando, tra il 1954 e il 1976, il tasso di cambio tra il peso d il dollaro rimase inchiodato a 12,5 (“qualsiasi messicano cresciuto in quegli anni – dice – sa perfettamente il risultato delle divisioni per 12,5”). Poi il Messico si avvitò in una serie di crisi drammatiche finché, nel 1996, per un dollaro ci vollero 3.400 pesos.

 

E’ in quegli anni è che il nostro Agustín, figlio di un piccolo imprenditore dei trasporti, decide che è il caso di studiare economia. E scelse di farlo alla scuola di Milton Friedman. Anche se per la verità questo banchiere dall’animo gentile, che non ha esitato a sobbarcarsi un viaggio in macchina tra Mexico City e Washington pur di non separarsi dai suoi cani, è uno spirito pratico che rifugge dai rigori dottrinari. Ma capace di dare battaglia quando la situazione lo richiede. Come in questi giorni difficili, in cui merita suonare, prima che sia troppo tardi, l’allarme sulla salute dell’economia globale. “Il tasso di crescita – ha detto al Financial Times – è così basso che non possiamo permetterci il lusso di limitare il potenziale di sviluppo con manovre protezionistiche”. E invece, ad ogni latitudine, si moltiplicano i segnali negativi. “E’ un fenomeno che va al di là degli Stati Uniti o del Messico piuttosto che del Regno Unito o di altri paesi. La mia sensazione è che qualche anno fa abbiamo cantato vittoria troppo presto convinti che il successo della globalizzazione fosse ormai definitivo. Ma era solo un’illusione”.

 

Al contrario, è l’ora di tornare a predicare i vantaggi del free trade con l’obiettivo di farsi ascoltare da politici e banchieri che predicano bene e razzolano male. Come Carstens spera che succeda a Shanghai, dove il 4 e il 5 settembre su terrà la conferenza sullo sviluppo promossa dalla presidenza cinese ma insidiata, tra dispute territoriali e contrasti sui cambi, dagli istinti peggiori. O come è successo a Jackson Hole dove Carstens, intervenendo dopo Janet Yellen in qualità di presidente dell’advisory board del Fondo monetario, ha avuto il coraggio di dire che “in molti paesi la politica monetaria è arrivata al capolinea”. Intanto “la miscela di più nazionalismo e più protezionismo rischia di farci tornare a una situazione che il mondo non ha più vissuto dagli anni Trenta: le economie leader del pianeta sono diventate più protezioniste sotto la pressione del calo della crescita e dei profitti delle industrie locali. E così, come accadde allora si rischia di allungare e render più profonda la crisi”.

 

La diplomazia impone al Banchiere centrale di non nominare Donald Trump, invitato a Città del Messico dal presidente Enrique Peña Nieto come la candidata democratica Hillary Clinton. Ma il bersaglio di Carstens, discepolo della scuola di Chicago, culla del pensiero economico repubblicano, è trasparente. “La congiuntura politica americana è un grave fattore di rischio per l’economia”, E ancora: “Gli investitori stanno prestando la massima attenzione alle presidenziali Usa. Guai a voler mettere in discussione il Nafta dopo 22 anni di successi”. Al contrario, dice ancora nell’intervista al Financial Times, “mi auguro che una volta posata la polvere della sfida elettorale, Messico e Stati Uniti possano continuare a collaborare come hanno fatto in questi anni con reciproco beneficio. Il Messico è un paese che ha sposato la globalizzazione”. Sperando che il matrimonio non finisca schiacciato da un muro.

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