Il vero bazooka per l'Italia
Comunque la si giri è ormai evidente che l’Italia non ha cambiato verso e non ha cambiato verso neppure l’Europa. Soprattutto se si guarda all’economia. E la colpa non è dei gufi ma di una leadership europea incapace di mutare le regole che reggono l’Unione europea e l’euro e di correggere una strategia sbagliata di politica economica. E’ tuttavia possibile, come argomentiamo in questo articolo, formulare una strategia che affronti i problemi più urgenti della crisi europea, rappresentati dagli effetti della deflazione e della stagnazione, lasciando a tempi più propizi la revisione radicale dell’impalcatura su cui si fonda oggi l’Ue. Ciò che proponiamo è uno stimolo fiscale finanziato attraverso la creazione di moneta. La monetizzazione di una parte del disavanzo, destinato a finanziare senza creazione di debito un ampio e generalizzato programma di investimenti in infrastrutture, e vincolato al mantenimento di un adeguato surplus primario strutturale, ottenuto attraverso il controllo della spesa corrente.
Argomenti simili ai nostri, presentati in varie forme (la più recente al Seminario Internazionale di Villa Mondragone, Giugno 2016), sono stati formulati da Jordi Galì (ottobre 2014) e Andrew Watt (marzo 2015), e il dibattito sul superamento del tabù della monetizzazione di parte del deficit pubblico ha acquisito spazio tra gli economisti. Ma è tempo che la discussione esca dai confini accademici. Il risultato della politica economica perseguita fino a oggi è quello di aver portato l’Europa alla stagnazione economica e sull’orlo della disgregazione. E’ dalla crisi del 2008 che l’Eurozona non cresce e non riesce ad assorbire la disoccupazione che si è creata. Ci hanno raccontato che il problema fosse quello di ottenere un riaggiustamento tra paesi deboli e forti mediante la deflazione interna (cioè la riduzione dei salari) nei primi, e abbiamo ottenuto una deflazione generale contro la quale sempre più faticosamente combatte la Banca centrale europea. Ci hanno raccontato che il consolidamento fiscale doveva essere l’obiettivo fondamentale da perseguire nonostante la recessione, anche per costringere i paesi riluttanti ad accettare la deflazione interna. Abbiamo ottenuto la deflazione ma non il consolidamento fiscale poiché i debiti pubblici hanno continuato a crescere non solo in Italia (ricordiamo che il Fiscal compact doveva servire a porre il rapporto debito/pil in una traiettoria di discesa).
Dopo che nel 2011 l’allora governo in carica cadde sotto l’imperativo dell’anticipo del pareggio di bilancio al 2013, oggi in Italia si combatte per mantenere il deficit sotto il 3 per cento nel 2017. Per quel che riguarda il debito è anche da notare che dal 2008 al 2011, cioè con il pieno impatto della crisi, il debito in rapporto al pil aumentò di 14 punti percentuali, mentre dal 2011 al 2015, in piena fase di austerity, è cresciuto di altri 16 punti, superando il 132 per cento. Eppure si è fatta la riforma delle pensioni già cinque anni fa e ben due riforme del mercato del lavoro. Una conseguenza è che la Germania vanta oggi un surplus commerciale di oltre 8 punti percentuali, e perfino l’Italia ha un surplus commerciale, pur in assenza di crescita, e ciò significa l’assurdo di un eccesso di risparmio, cioè di una carenza di investimenti, da cui deriva non solo la stagnazione attuale ma la prospettiva di un’ulteriore perdita di produzione e competitività.
Certo, oggi la leadership europea non parla più di austerity, e il termine “consolidamento fiscale” è stato sostituito dal più pudico “mantenimento del rigore”. E tecnicamente è vero che non siamo più nell’ambito dell’austerity, giacché la politica fiscale europea è divenuta nel complesso leggermente espansiva. Ma ciò non cambia la situazione perché un lustro di politica di austerity ha provocato un livello di atrofizzazione della capacità produttiva da cui non si esce con una “leggera politica fiscale espansiva”. A noi sembra che la situazione sia chiara. Buona parte dell’Eurozona, e certamente l’Italia, ha bisogno di uno stimolo fiscale di dimensioni molto più ampie di quelle in discussione nella più rosea delle interpretazioni di flessibilità. E’ necessario che il “whatever it takes” venga esteso dalla politica monetaria alla politica fiscale.
Lo stimolo fiscale deve consistere in corposi programmi di investimento pubblico in deficit. E non si tratta di scavare e riempire buche per sostenere la domanda, ma di colmare una caduta degli investimenti profonda e prolungata che compromette nel presente e nel futuro la produttività e la competitività dell’economia europea. Un programma di investimenti pubblici in deficit perché questo serve anche a rilanciare la domanda interna, dal momento che i governi non possono costringere i privati ad investire, ma possono solo creare le prospettive perché divenga conveniente farlo. Naturalmente, tutto ciò implica affrontare la vera questione che in questi anni ha bloccato la politica economica europea: come conciliare il necessario stimolo fiscale con il pericolo che l’ulteriore crescita dei debiti pubblici crei ulteriore sfiducia nella loro sostenibilità. La risposta tuttavia non è il galleggiamento attuale, che non ha affatto impedito fino ad oggi la crescita del debito.
Si tratta invece di superare il tabù (e la regola) che impedisce il finanziamento monetario del deficit. L’unica strategia che nelle condizioni descritte ci sembra possibile oltre che necessaria è, quindi, quella esposta all’inizio: finanziare mediante monetizzazione, cioè senza debito aggiuntivo, il deficit corrispondente a un ambizioso programma di spesa in investimenti, ma condizionando tale finanziamento al mantenimento di un surplus primario compatibile con un sentiero di riduzione costante del debito. L’obiettivo è di ridurre il rapporto debito/pil operando sui due termini del rapporto: stimolare la crescita del pil reale con il deficit finanziato con moneta e determinare al contempo la diminuzione del debito nominale stabilizzando il surplus primario al livello necessario mediante il controllo della spesa corrente. In altri termini eliminando ogni finanziamento in deficit della spesa corrente mediante debito aggiuntivo.
Qualche semplice calcolo mostra che l’obiettivo di riduzione del debito per l’Italia implica, con un costo medio del debito contenuto entro il 3,5 per cento (oggi è lievemente minore), un tasso di crescita almeno del 2,5 per cento e un surplus primario almeno del 2 per cento (oggi è inferiore all’1,5), o viceversa. Una tale politica può essere applicata a tutta l’Eurozona, il cui debito pubblico è nel complesso superiore di oltre 30 punti percentuali rispetto all’obiettivo del 60 per cento. Ci si augura che le obiezioni a questa politica non si riducano all’osservazione che le regole attuali non lo consentono, perché ormai è assodato che le regole attuali, senza un “whatever it takes” applicato alla politica fiscale, conducono alla dissoluzione europea e alimentano solo proposte, di varia natura, di abbandono dell’euro.
D’altra parte, le stesse obiezioni tradizionali a un’opzione di questo genere appaiono discutibili. L’impatto inflazionistico appare un problema secondario nelle condizioni attuali, dal momento che siamo di fronte ad un deficit di domanda (il Fondo monetario internazionale stima per l’Italia un output gap di oltre il 3 per cento nel 2015), e le Banche centrali di tutto il mondo stanno inondando i mercati di liquidità, cercando di alzare senza successo l’inflazione e di tenere basso il valore delle rispettive valute. Quanto al rilassamento dei costumi fiscali dei paesi mediterranei che una simile politica incentiverebbe – tipica ossessione tedesca – basta osservare che in Italia il surplus primario in rapporto al pil è superiore da almeno venti anni a quello tedesco.