La chimera del reddito di cittadinanza annebbia il dibattito sul welfare
Reddito minimo, reddito di cittadinanza, reddito di base, reddito di partecipazione. La confusione regna sovrana nel dibattito italiano. Il dibattito su questo tema risale ad almeno 200 anni fa, ma negli ultimi mesi è tornato sotto i riflettori con il referendum (bocciato) in Svizzera, la sperimentazione in corso in Finlandia e i timori per la “fine del lavoro” a causa della rivoluzione tecnologica. Il settimanale Internazionale vi ha dedicato il numero di fine agosto intitolato “Come minimo un reddito per tutti”, con l’articolo tradotto dal giornale olandese De Correspondent.
Reddito minimo, reddito di cittadinanza o reddito di base sono usati in maniera intercambiabile, ma non sono la stessa cosa, per niente. La questione lessicale potrebbe sembrare leziosa e pedante, ma è decisiva per il dibattito italiano: se, infatti, da una parte nessun paese europeo (e al mondo) ha un reddito di cittadinanza (fatta salva l’Alaska che redistribuisce a tutti i cittadini parte dei proventi del petrolio), l’Italia è l’unico paese europeo insieme alla Grecia a non avere un reddito minimo. A fare un po’ di chiarezza per fortuna è arrivato il libro di Stefano Toso, professore di economia all’Università di Bologna e autore di “Reddito di cittadinanza o reddito minimo?” pubblicato per il Mulino.
Innanzitutto, più che di reddito di cittadinanza (che rimanda quindi al possesso di uno specifico passaporto) si dovrebbe parlare di “reddito base” che è un reddito erogato in modo incondizionato a tutti, su base individuale, senza alcuna verifica della condizione economica o richiesta di disponibilità a lavorare. Questa è proprio la differenza chiave con il “reddito minimo”, che invece è una prestazione di “ultima istanza”, previsto da tutti o quasi i sistemi di welfare per il contrasto della povertà estrema e quindi, per definizione, sottoposto alla verifica della condizione economica di colui che lo richiede e del suo nucleo familiare e presuppone la disponibilità a lavorare o comunque a partecipare ad attività di reinserimento sociale e/o lavorativo.
Il dibattito universalità (“diamo un reddito a tutti”) vs. selettività (“diamo un aiuto solo a chi ne ha bisogno”) va avanti da almeno due secoli. I sostenitori di un reddito universale sottolineano come un reddito di base permetterebbe di aiutare tutti i poveri con costi amministrativi limitati (non sarebbe necessario infatti controllare che esistano i prerequisiti e la dichiarazione sia onesta) e soprattutto non introdurrebbe incentivi perversi (tipo non lavoro perché altrimenti perdo il reddito) come avviene con altre prestazioni sociali. Chi, invece, si oppone a un reddito di cittadinanza sottolinea come questo rappresenti un disincentivo all’accumulazione di capitale umano e riduca l’etica del lavoro (come disse John Rawls, perché pagare un reddito anche ai surfisti di Malibù che hanno scelto di oziare tutto il giorno?).
E, infatti, sono numerosi i sindacalisti e i pensatori di sinistra a essere contrari. Il filosofo francese André Gorz, prima di cambiare idea e diventare un fautore dell’idea, scrisse che “un reddito di cittadinanza è un solo un modo per garantire agli individui ‘socialmente inutili’ il diritto alla sopravvivenza, non per integrarli né renderli eguali”. Si tratterebbe di carità in buona sostanza. Il leader dei metalmeccanici della Cisl, Marco Bentivogli, fa anche un passo oltre: “Se abbandoniamo la battaglia del lavoro e della crescita sostenibile per puntare sull’assistenza, mi chiedo con quali risorse si pensa di poter pagare il reddito di cittadinanza”.
Infatti, qualunque sia la posizione che uno possa avere sul reddito di cittadinanza, lo scoglio quasi insuperabile è sempre il solito: chi paga? Toso nel suo libro fa i conti e le cifre sono faraoniche (ovviamente). Dato che lo stato deve già occuparsi della fornitura di beni pubblici (difesa, giustizia, ordine pubblico e sicurezza, eccetera), spesa sanitaria, spesa per istruzione e spesa per il pagamento degli interessi sul debito pubblico – un importo che complessivamente si aggira intorno al 30 per cento del pil –, un’aliquota d’imposta media (non marginale!) del 45 per cento sul reddito riuscirebbe a finanziare solo un reddito di base corrispondente al 15 per cento del reddito medio, circa 4.000 euro all’anno. Un’aliquota più alta, pari ad esempio al 50 per cento, potrebbe finanziare un reddito di base uguale al 20 per cento del reddito medio, circa 5.000 euro annui.
Cifre importanti, ma sempre ben lontane dalla soglia di povertà relativa (circa 7.000 euro annui per un single), soprattutto se si considera che l’esempio precedente non considera la spesa pensionistica e quella per assistenza! Attualmente in Italia l’aliquota media Irpef per una persona che guadagna 25.000 euro l’anno è circa del 20%, 36 per cento per chi ne guadagna 100.000. Quindi, nemmeno raddoppiando le aliquote dell’imposta sul reddito attuali si riuscirebbero a raccogliere entrate a sufficienza per pagare un reddito di base a tutti i cittadini che li faccia uscire dalla povertà. Infatti, persino Sir Anthony Atkinson, uno tra gli studiosi più attenti all’idea di reddito di cittadinanza, giudica quella proposta una chimera.
E allora se è una chimera, il dibattito politico e giornalistico farebbe meglio a concentrarsi sul reddito minimo per chi si trova senza lavoro e senza altre fonti di reddito. Come ricordato, l’Italia con la Grecia è l’unico paese europeo a non avercelo, nonostante le numerose proposte elaborate nell’ultimo ventennio e la sperimentazione del Reddito minimo di inserimento a opera del primo governo Prodi. Alcune regioni ed enti locali hanno negli scorsi anni lanciato sperimentazioni più o meno di successo, ma una politica nazionale è imprescindibile. Il Sostegno di Inclusione Attiva ideato ai tempi del governo Letta, sperimentato nelle città più grandi del paese e dal 2 settembre esteso a tutto il territorio nazionale, è il primo passo verso quello che dovrebbe diventare il reddito di inclusione, previsto dalla Legge Delega sulla povertà, attualmente in discussione in Parlamento.
In attesa continuiamo a parlare di bonus una tantum e di pensioni, l’unico vero strumento (inappropriato) di welfare che l’Italia ha conosciuto negli ultimi decenni. Il Presidente dell’Inps Tito Boeri ha detto al Sole 24 Ore che le salvaguardie degli esodati sono già costate più di 11 miliardi, erodendo circa il 15 per cento dei risparmi di spesa attesi dalla riforma del 2011. “Con quei soldi si potevano finanziare dieci anni di reddito minimo per chi perde il lavoro fra i 55 e i 65 anni”, dice Boeri. Ma tanto noi preferiamo discutere di chimere mentre i nonni ci passano la paghetta.