Quanta confusione sotto il cielo della politica monetaria
Di seguito il testo, con annesso link, delle ultime due puntate di "Oikonomia", la mia rubrica settimanale su Radio Radicale. Entrambe le puntate sono dedicate al rinnovato dibattito sulle tecniche di politica monetaria. Qui potete ascoltare l'audio della puntata del 29 agosto, e qui invece l'audio del 5 settembre.
Anche quest’anno la riunione informale dei banchieri centrali del pianeta che si è tenuta lo scorso fine settimana a Jackson Hole, nello stato americano del Wyoming, non è stata una semplice passerella dominata da parole di routine. E non soltanto per l’atteso discorso del governatore della Federal reserve, Yanet Jellen, che ha detto di essere ottimista sull’andamento dell’economia americana e di prevedere un rialzo del tasso ufficiale di sconto più vicino che mai, ma non ha offerto indizi precisi su quando ciò avverrà. Piuttosto l’occasione ha offerto ai banchieri centrali, e agli analisti che in tutto il mondo ormai li seguono da vicinissimo, un momento per riflettere su quali altre misure non convenzionali di politica monetaria potranno essere inventate per rilanciare la ripresa e soprattutto risollevare l’andamento dei prezzi o inflazione.
In particolare lo scorso 15 agosto, il presidente della Federal reserve di San Francisco, John Williams, ha diffuso un documento secondo cui la Banca centrale degli Stati Uniti dovrebbe alzare il target dell'inflazione, oggi pari al 2 per cento, per permettere un maggiore spazio di manovra dal punto di vista monetario. Si tratterebbe di un’innovazione di non poco conto, considerato che ormai da almeno trent’anni i banchieri centrali si sono trovati d’accordo sul fatto che il modo migliore per stabilizzare un’economia è puntare a uno specifico target o obiettivo di inflazione, abitualmente il 2 per cento per le economie avanzate.
Prima di capire perché tale target, secondo un numero crescente di economisti, andrebbe alzato, cercherò di spiegare cosa intendiamo per “inflation targeting”. Secondo Olivier Blanchard, già capo economista del Fondo monetario internazionale, finora sono state due le strategie che le autorità monetarie hanno perseguito per realizzare l’obiettivo della stabilità dei prezzi. Da una parte c’è la strategia del “monetary targeting”, che si basa sull’annuncio da parte della Banca centrale di un tasso di crescita della quantità di moneta; questo era il metodo usato dalla Bundesbank tedesca, per esempio. Dall’altra parte l’inflation targeting identifica invece una strategia basata sull’annuncio da parte della Banca centrale di un sentiero desiderato per l’inflazione futura. In questo caso la Banca centrale decide i suoi interventi correttivi sulla base degli scostamenti dell’inflazione prevista dal sentiero desiderato. Si noti – osserva Blanchard – che lo scostamento è tra l’inflazione prevista e quella desiderata; ciò per tenere conto del fatto che la politica monetaria non ha effetti immediati sull’inflazione. Il vantaggio dell’inflation targeting consiste nel fatto che l’orientamento della banca centrale è delineato in modo molto chiaro e visibile, in quanto fa riferimento direttamente all’obiettivo della stabilità dei prezzi. Il principale inconveniente consiste nel fatto che il tasso di inflazione non è controllabile direttamente dalla Banca centrale. Politiche basate sull’inflation targeting sono state utilizzati alla fine degli anni 90 e inizio 2000 da alcuni paesi tra cui il Canada, la nuova Zelanda, il Regno Unito, la Spagna e la Svezia. E’ bene osservare che la Banca centrale europea non ha scelto nessuno dei due approcci visti finora, cioè monetary targeting o inflation targeting, ma una propria strategia di politica monetaria orientata alla stabilità nel quale confluiscono elementi delle due diverse strategie. Tale strategie della Banca centrale europea prevede comunque un obiettivo definito come un aumento sui 12 mesi dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo – più semplicemente un aumento dell’inflazione per l’area dell’euro – vicino ma inferiore al 2 per cento.
Tornando all’ipotesi lanciata da Williams, perché l’obiettivo dell’inflazione al 2 per cento non andrebbe più bene per quegli istituti che fanno ricorso all’inflation targeting? Essenzialmente perché il contesto mondiale è cambiato rispetto agli anni 90, quando quella dottrina andò formandosi. Allora sembrava che l’inflazione in essere nei nostri paesi sarebbe stata per la maggior parte del tempo sopra il target che i banchieri centrali si erano dati. E il cosiddetto tasso di interesse naturale – cioè il quel tasso che equilibra risparmi e investimenti a livello di piena occupazione delle risorse – era all’incirca pari al 3,5 per cento. Ma oggi l’inflazione è inferiore agli obiettivi dei banchieri centrali ormai da tempo. E il tasso di interesse naturale è caduto all’uno per cento o anche più in basso, probabilmente perché – sintetizza l’Economist – l’invecchiamento demografico ha fatto aumentare i risparmi mentre le previsioni al ribasso sulla crescita hanno diminuito gli investimenti. Il cambiamento di queste condizioni di fondo ha ridotto le possibilità di intervento delle tradizionali politiche dei banchieri centrali, attraverso cioè la fissazione dei tassi di interesse a breve. In particolare avanza il timore che, di fronte a una futura crisi e con questi livelli di inflazione e di tassi bassi già in partenza, le banche centrali dei paesi occidentali non possano ridurre chissà quanto il costo del denaro. Far credere a investitori e consumatori credessero che l’inflazione dovrà ed effettivamente potrà raggiungere il 4 per cento potrebbe aiutare, almeno secondo alcuni economisti.
Da tempo però si fa strada una terza scuola di pensiero su quali dovrebbero essere gli obiettivi delle Banche centrali, è quella dell’NGDP targeting. La sigla NGDP è l’acronimo di nominal gross domestic product, cioè “prodotto interno lordo nominale”. Il pil nominale può essere inteso come la somma di tutto quello che viene speso nell’economia di un paese: questa spesa totale può crescere sia perché circola un numero maggiore di prodotti e servizi (e allora siamo di fronte alla crescita economica propriamente detta) sia perché salgono i prezzi (l’inflazione). Se quest’anno la crescita economica in Italia fosse del 2 per cento e avessimo un’inflazione anch’essa del 2 per cento, ecco che il pil nominale crescerebbe del 4 per cento. Per una Banca centrale, adottare come obiettivo un livello (crescente) di pil nominale, vuol dire non limitarsi a prendere come riferimento un certo aumento dei prezzi, 2 o 4 per cento che sia, ma puntare a far crescere una grandezza diversa che include sia l’inflazione sia il pil. Se per esempio a causa di una recessione il pil reale di un paese cala, la Banca centrale che si ispira all’NGDP targeting può tollerare più inflazione per compensare la minore crescita e preservare lo stesso livello di pil nominale.
A sostenere tra i primi questa tesi ci sono stati negli ultimi anni economisti ormai noti – anche grazie alla loro attività di blogger – come “monetaristi di mercato”, per esempio l’americano Scott Sumner e il danese Lars Christensen (qui una sua intervista al Foglio sulla crisi dell'euro). Anche Mark Carney, attuale governatore della Bank of England, in un suo discorso del 2012, quando era governatore della Banca centrale del Canada, aprì a un superamento dell’attuale modello dell’inflation targeting e osservò alcuni benefici dell’NGDP targeting. I teorici dell’NGDP targeting sostengono innanzitutto che un target di pil nominale include automaticamente due obiettivi in un’unica metrica, e cioè occupazione e inflazione, il che renderebbe ancora più chiaro e fruttuoso il dibattito pubblico e il confronto tra policymaker. Oggi, come noto, la Banca centrale europea è tenuta per esempio a tenere in considerazione il livello dei prezzi e non quello degli occupati. Il settimanale Economist, poi, ha fatto l’esempio della crisi americana per dimostrare che l’NGDP targeting implicherebbe una politica monetaria più tempestiva di quella attuale. “Le persone ricordano con quale aggressività la Fed intervenne per puntellare il sistema finanziario nell’autunno del 2008, ma dimenticano di quanto lenta sia stata la reazione della Banca centrale di fronte a quello che era un precipitoso declino macroeconomico. Il tasso di riferimento della Fed rimase al 2 per cento dall’aprile all’ottobre 2008. La Fed non aumentò il suo iniziale programma di acquisti di asset sopra la soglia di mille miliardi di dollari fino al marzo 2009, ma a quel punto l’economia aveva già perso circa 6 milioni di posti di lavoro. Perché questo ritardo? C’è un dato che vale la pena notare: il tasso d’inflazione core mensile è stato positivo per tutto il 2009 e il 2009. La crescita del pil nominale, invece, era negativa già nel terzo trimestre del 2008, ed era fortemente negativa nel quarto trimestre di quell’anno, visto che la spesa totale dell’economia si riduceva di un 8,4 per cento l’anno. Una Banca centrale con un esplicito target in termini di pil nominale avrebbe dovuto fronteggiare un’intensa (e dovuta) pressione a fare molto di più e molto prima di quanto non abbia fatto l’attuale Fed, con il suo focus un po’ vago in termini di inflazione come indicatore della più generale stabilità macroeconomica”.
Secondo alcuni osservatori, già oggi i banchieri centrali, seppure non in maniera esplicita, tengono d’occhio l’indicatore composito di pil e inflazione. Anche se non tutti, a partire dalla Bce per il momento, non tengono conto di un altro consiglio dell’economista Sumner: il targeting del pil nominale funziona al meglio quando una Banca centrale che in un dato anno si allontana per difetto dall’obiettivo d’inflazione, come sta avvenendo oggi rispetto al 2 per cento, o di complessivo pil nominale, allora l’anno dopo dovrà elevare il suo obiettivo d’inflazione o di pil nominale per generarne di più così da “compensare”. Ma questa, per gli standard dei banchieri centrali, sarebbe una vera rivoluzione.
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