"L'età dell'oro", dipinto della scuola olandase, XVII sec.

Contro il piagnisteo pessimista

Marco Valerio Lo Prete
Media, demografia e sogno del “rischio zero” offuscano un mondo da record (positivi). Parla Norberg, cittadino svedese ora in forze al Cato Institute negli Stati Uniti, che, come dimostrazione più evidente del fatto che i bei tempi andati sono qui e ora, dice:  “Nell’arco di una generazione, abbiamo quasi debellato la povertà estrema sulla terra".

Roma. “La fine dell’omicidio”, s’intitola un saggio appena pubblicato su Foreign Affairs. Dove si dimostra, numeri alla mano, che il numero di vittime da omicidio non è mai stato così basso da quando abbiamo le statistiche. E ciò vale anche se si tiene conto dei conflitti armati nel mondo. Nel 1990 negli Stati Uniti c’erano 9,4 persone assassinate ogni 100.000, nel 2010 la cifra è scesa a 5,5. In Italia, nel 1990, c’erano 3,3 omicidi ogni 100.000 persone, oggi siamo scesi sotto l’unità; nel primo semestre di quest’anno nel nostro paese ci sono stati 196 omicidi volontari, contro i 249 del 2015. Mettendo assieme una quantità ingente di statistiche di questo tipo, positive e soprattutto controintuitive, in a campi fra loro diversi – dall’alimentazione alla salute, dall’alfabetizzazione alla libertà – lo storico dell’economia Johan Norberg ha appena dato alle stampe “Progress” (edito da Oneworld Publications).

 

A Norberg, cittadino svedese ora in forze al Cato Institute negli Stati Uniti, chiediamo quale sia la dimostrazione più evidente del fatto che i bei tempi andati sono qui e ora: “Nell’arco di una generazione, abbiamo quasi debellato la povertà estrema sulla terra – dice al Foglio – Da vent’anni, durante ogni secondo che abbiamo passato a lamentarci per quanto le cose andassero male, 100 persone uscivano dallo stato di povertà. Da 4 persone su 100 in tutto il mondo, siamo passati a meno di una su 100”. Tuttavia già Adam Smith notava lucidamente che anche l’europeo animato dal più profondo umanitarismo si preoccuperebbe più di un mignolo che gli dovesse essere amputato a breve che di un terribile cataclisma nella lontana Cina. Insomma, può essere una magra consolazione, per gli occidentali, sapere che il resto del mondo sta meglio mentro loro stanno peggio. “In parte è comprensibile – dice lo storico – Ma ritengo anche che sia fuorviante l’enfasi, nel dibattito pubblico euroamericano, sulla diseguaglianza dei redditi che cresce nelle nostre società. Non si tratta di contestare i numeri dell’economista Thomas Piketty o di altri. Il punto è che l’indicatore del reddito sottostima la qualità della nostra vità".

 

"Fino a un secolo fa, i più ricchi tra noi vivevano su un altro pianeta, pur risiedendo nello stesso paese. Erano più alti della generalità della popolazione, vivevano più a lungo, mangiavano e si spostavano diversamente. Oggi i vari Bill Gates hanno la stessa vita media che abbiamo noi, hanno accesso allo stesso internet e allo stesso smartphone che utilizziamo noi, mangiano come noi e infine sono cittadini liberi come lo siamo noi”. Dopodiché, per lo studioso, se in questa fase storica la ricchezza si concentra, “non è detto che si concentrerà sempre di più domani e nel futuro”. D’altronde mobilità sociale e distribuzione del reddito più equa erano relativamente semplici da raggiungere dopo la Seconda guerra mondiale, quando per ovvie ragioni si ripartiva da zero. “Al sano scetticismo di Smith e di tanti occidentali, inoltre, si potrebbe controbattere così – dice Norberg – Rispetto a soli trent’anni fa, l’aria che respiriamo è più pulita, viviamo mediamente 10 anni più a lungo anche grazie a tecniche mediche evolute, possiamo utilizzare tecnologie strabilianti. E questo oltre al fatto che dal 1970 a oggi il reddito mediano delle famiglie di classe media e inferiore è comunque cresciuto del 30 per cento negli Stati Uniti. In definitiva, è vero che altri paesi del mondo hanno guadagnato di più con la globalizzazione, ma da qui a considerarci ‘i perdenti’ di questo processo ce ne passa…”.

 

Sarà. Eppure tali ci sentiamo, specie in Europa e in America, i perdenti. Lei si è fatto un’idea sul perché? “Avanzo alcune ipotesi. La prima è di tipo biologico-evoluzionistico. Gli psicologi Daniel Kahneman (premio Nobel per l’Economia nel 2002, ndr) e Amos Tversky hanno dimostrato che le persone prevedono gli eventi non sulla base della frequenza storica di quegli eventi, ma sulla facilità con cui ricordano eventi simili scavando nella memoria. Più un incidente è memorabile, dunque, più pensiamo che sia probabile. Perciò i fatti orribili e scioccanti sono più ricorrenti nei nostri pensieri. Forse siamo ‘costruiti’ per essere allarmati, per cercare di comprendere ciò che accade di eccezionale: paura e preoccupazione sono mezzi di sopravvivenza. In un’èra lontana ma molto più pericolosa di quella in cui viviamo, soltanto i più preoccupati e insoddisfatti sopravvivevano”.

 

C’è un altro bias che Norberg chiama “la psicologia della moralizzazione”: “Lamentarsi di tutto è un modo per segnalare agli altri che tu hai a cuore gli altri. I più critici, insomma, sono visti come moralmente impegnati”. I media, secondo lo studioso, esaltano queste due tendenze: “Sapendo che siamo attratti da fatti negativi, le trasmissioni di notizie a ciclo continuo non fanno che proporcene sempre di nuove: se oggi non c’è un serial killer in Italia, ci sarà certamente una sparatoria negli Stati Uniti, e così via, 24 ore su 24. Attraverso i social media, anche per gratificare indirettamente noi stessi, moltiplichiamo tutto ciò”. L’autunno demografico non aiuta: “Milioni di figli del baby boom stanno andando in pensione in occidente. Per loro è naturale che il periodo migliore sia sempre quello che hanno alle spalle, a costo di idealizzarlo: da giovani siamo più ottimisti e sicuri, abbiamo meno responsabilità e più possibilità”.

 

Infine, per l’insieme di queste ragioni, “stiamo diventando sempre più avversi al rischio. Peggio, sogniamo il rischio zero”. “Gli ogm sfamano milioni di persone ma ci insospettiscono, anche se la comunità scientifica è d’accordo nell’escluderne la pericolosità per l’uomo”, ragiona Norberg. “Il ricordo della crisi finanziaria sarà pure vivo, ma ora siamo all’eccesso opposto: i privati non investono anche se viviamo nell’economia dei tassi zero e del denaro a buon mercato”. Ancora, i nostri governi si scervellano per creare regole “che frenino il libero scambio, come dimostra da ultimo il caso del Ttip tra Stati Uniti e Unione europea”, norme che “diminuiscano la concorrenza e che blocchino i disruptor, digitali o no che siano. Insomma, inneggiando al rischio zero – conclude Norberg – facciamo l’esatto contrario di ciò che sarebbe necessario fare per prolungare questa età dell’oro in cui viviamo”.