Berlino, Angela Merkel con il primo ministro cinese fanno shopping al supermarket (foto LaPresse)

L'America non bacchetta più Berlino per l'austerity. Problema per Roma. Lars Feld ci dice perché

Marco Cecchini
Dal bilancio ai consumi privati, tutti i nuovi dati che sfatano il mito della Berlino sparagnina. Lezioni tedesche

Roma. Da tempo l’economia europea è afflitta da un paradosso. La Germania, che da sola rappresenta quasi un terzo del pil dell’Eurozona, gode di ottima salute ma i suoi partner non riescono ad approfittarne. La locomotiva tedesca va, gli altri arrancano. E accusano Berlino di essere solo una formidabile macchina esportatrice, di  non fare abbastanza per sostenere le altre economie europee spingendo consumi e investimenti interni. Vero? Falso? Tra non molto questa accusa potrebbe rivelarsi fuorimoda. Qualche giorno fa, parlando al Council on Foreign Relations il segretario del Tesoro americano, Jack Lew, ha detto che “negli ultimi 18 mesi l’approccio di politica economica della Germania è cambiato. Il budget federale prevede per i prossimi anni aumenti di spesa e sgravi fiscali. Abbiamo convinto Berlino ad accelerare la crescita”.

 

Si tratta di una dichiarazione passata sottotraccia, anche per la sede “laterale”, nella quale è stata fatta, e tuttavia significativa perché viene da un esponente dell’Amministrazione americana da sempre molto critico verso l’orientamento al rigore finanziario della Germania. Una dichiarazione che, nel quadro degli attuali rapporti internazionali, potrebbe rendere più difficile ai paesi del Club Med, di recente riunitisi ad Atene per proclamare la fine dell’austerity, tirare per la giacca Angela Merkel giustificando le proprie magre performance con l’eccesso germanico di sobrietà. In ogni caso, come dice al Foglio Lars Feld, economista e componente del comitato di saggi che assiste la cancelliera, “il cambio di approccio del governo, che c’è e si manifesta non da ora, non cambia di una virgola la politica economica tedesca nei riguardi dell’Europa: paesi come Italia e Francia dovranno continuare a mettere ordine nelle proprie finanze e rinunciare a ulteriori richieste di flessibilità”.  Il re insomma è nudo.

 

La Germania non potrà più essere accusata di non fare la sua parte, i partner facciano la loro. Certo, si può sempre dire che si deve fare di più, e lo si dirà, ma non si può negare che una correzione sia in corso. Secondo le ultime previsioni dell’Ocse, la crescita economica tedesca è destinata a rimanere “solida”: accelerano i consumi privati (grazie all’aumento dei salari) e gli investimenti residenziali (anche per l’effetto rifugiati), rallentano le esportazioni. Secondo l’Istituto di Kiel, uno dei centri studi che funge da advisor del governo Merkel, l’economia crescerà dell’1,9 per cento quest’anno, dell’1,7 il prossimo (causa Brexit) e del 2,1 nel 2018. Le novità politicamente più sensibili vengono però dal bilancio pubblico. Per il periodo 2016-’20 il budget federale ha messo in cantiere un aumento del 10 per cento della spesa pubblica con un bilancio in pareggio nel quinquennio e un rapporto debito/pil sotto il 60 a fine periodo. In vista delle elezioni del prossimo anno il ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble, ha promesso riduzioni di tasse per 15 miliardi e un ritocco alla progressività delle aliquote a favore della  classe media.

 

Tutto questo non basta? Possibile. Il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, ha sostenuto al termine dell’ultimo direttivo che “i paesi che hanno spazi di manovra fiscale nel bilancio dovrebbero usarli, la Germania è uno di questi”. Feld ribatte con una punta polemica che “sono i bassi tassi d’interesse della Bce a frenare l’espansione della spesa e mantenere il bilancio in pareggio”. In realtà se la Germania riesce a realizzare la quadratura del cerchio tra budget balance e aumento della spesa pubblica non è solo grazie ai tassi a zero della Bce.  C’è la volontà di Berlino di rispettare gli obiettivi del Patto di stabilità e del Fiscal compact e c’è l’alto livello di occupazione che garantisce sostenute entrate tributarie. Solo nel 2015 (da gennaio a novembre) queste ultime sono aumentate di 25,8 miliardi. La Germania ha una popolazione di 82 milioni di abitanti, dei quali 43 lavorano e pagano le tasse. In Italia il rapporto è 23 milioni contro 60. Se noi volessimo arrivare ai livelli tedeschi dovrebbero lavorare quasi 10 milioni di italiani/e in più. Si possono piegare i numeri come si vuole ma alla fine il cuore del problema è sempre lo stesso: la maggiore competitività del pianeta Germania. Il surplus estero supera l’8 per cento del pil, sforando i parametri fissati dalle regole Ue. Ma si può chiedere a un paese di ridurre le proprie esportazioni? Per il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, “è un’assurdità”. Berlino aspetta piuttosto che siano i partner a essere capaci di aumentare le loro vendite sulle rive dell’Elba.