Ecco la presunzione fatale dell'Ue sul caso Apple
Un miliardo! Tanti sono gli iPhone venduti nel mondo da quel 2007 in cui Steve Jobs ne lanciò la prima versione. Quando sullo schermo del Keynote Apple a San Francisco dove il suo successore Tim Cook ne presentava la settima versione sono apparse quelle dieci cifre, credo che nessuno, né tra quelli che applaudivano in sala né tra quelli che seguivano l’evento in streaming sul proprio computer, abbia avuto il minimo dubbio su dove sia nata l’idea, dove si sia realizzato il prodotto, quale sia stato il centro che ha attratto nella sua orbita migliaia e migliaia di applicazioni, chi ci sia stato dietro il succedersi dei perfezionamenti di un oggetto che ha cambiato il nostro modo di comunicare, di lavorare, di rapportarci agli altri. E quindi dove si realizzi l’alchimia che trasforma scatolotti di metallo, plastica ed elettronica, comperati in giro per il mondo e assemblati in Cina per pochi dollari, in prodotti che i consumatori sono pronti a pagare anche il doppio di quelli dei concorrenti.
Nessuno tranne uno, la commissaria europea alla concorrenza, Margrethe Vestager. Per lei l’alchimia si verifica in Irlanda, e lì, in virtù di un accordo fiscale agevolato (tax ruling), l’aumento di valore che essa produce non viene sostanzialmente tassato. Ella sa bene che nell’Unione europea le politiche fiscali sono materia esclusiva dei governi nazionali, e quindi non ne fa – formalmente – una questione di aliquote, ma di concorrenza: per lei il ruling è un aiuto di stato, che favorisce una singola azienda a danni delle altre. Ha fatto due conti e ha anche determinato l’ammontare di tasse “evase”, 13 miliardi di euro. E impone all’Irlanda di pretenderle per ristabilire il giusto.
Apple sbarca in Irlanda nel 1980. A Cork fa uno stabilimento, in cui continua a investire. Oggi vi lavorano 6.000 persone che assemblano alcuni tipi di iMac: è la Apple Operation Europe (nel seguito “Operation”). Vende i suoi prodotti alla Apple Sales International (nel seguito “Sales”) che li rivende, insieme ad altri prodotti Apple fabbricati in giro per il mondo, alle organizzazioni commerciali di Europa, Africa, e Medio Oriente. A che prezzo compera e a che prezzo vende? Bilanci non se ne son visti, ma è logico immaginare che Sales acquisti da Operation a prezzi che riconoscano un ragionevole margine industriale, e rivenda alle reti commerciali a un prezzo che lasci un ragionevole margine alla attività di vendita e distribuzione. E la differenza, tra prezzi di acquisto e di vendita di Sales, a chi va? Qui sta il punto, ed è un punto “pesante”. Per Apple quella differenza “appartiene” alla casa madre americana, contropartita di quanto, in termini di innovazione, ricerca, immagine, conferisce ad Apple il suo potere di mercato, come quantità vendute e prezzi praticati: oltre che adeguata remunerazione del capitale. Per la Vestager invece quella differenza è utile bello e buono, e deve essere tassato là dove contabilmente si materializza, cioè in Irlanda. Se il ragionevole profitto industriale di quanto fabbricano a Cork i 6.000 operai di Operation viene rapportato non al loro fatturato, ma al prezzo di trasferimento da Sales alla rete di vendita, il tax rate non è più il 12,5 per cento che pratica l’Irlanda, ma può diventare lo 0,05 per cento del 2011 e, aumentando i volumi, lo 0,005 per cento del 2014. E siccome ciò che realizza l’alchimia è una semplice scrittura contabile, potrebbe perfino darsi che la tassa pagata su di essa sia molto alta.
Si deve tassare in base alla stima presuntiva degli utili realizzati da quelle che il fisco italiano definisce “stabili organizzazioni commerciali”, oppure si deve prendere come base imponibile presuntiva i ricavi? Per il nostro Testo Unico dei redditi non vi è dubbio, è la prima delle due. Però il problema esiste, è il risultato della immaterialità dei beni scambiati sul web e della globalizzazione. L’Ocse, a cui il G20 ha chiesto di preparare delle linee guida BEPS (Base Erosion and Profit Shifting), si è imbattuta in grosse difficoltà. Difficoltà tecniche: non dar vita a due sistemi separati, uno per i beni materiali e un altro per quelli immateriali; evitare la doppia imposizione, nel paese dove si vendono servizi e in quello di residenza fiscale. Difficoltà politiche: realizzare un grande accordo tra autorità fiscali europee, americane, cinesi. Quello che è certo è che non è una soluzione fare come il fisco italiano, che prima notifica ad Apple una sanzione di 880 milioni e poi transa a 319.
Al problema della definizione della base imponibile si sovrappone quello della legislazione fiscale americana sul reddito di impresa: lo tassa con l’aliquota più alta al mondo (35 per cento, contro il 30 in Germania e il 22 nel Regno Unito) ma non tassa gli utili finché questi rimangono all’estero. Oggi se ne sono accumulati per 2 trilioni di dollari, di cui 200 miliardi della sola Apple, affluiti in gran parte dalla consociata irlandese. Dire che su di essi Apple non ha pagato tasse è tecnicamente errato: non le ha ancora pagate, la tassazione è sospesa. A criticare il sistema ci sono tutti, a destra e a sinistra: ma manca il consenso su come cambiarlo. Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, aveva proposto di tassare tutti gli utili, rimpatriati o no, al 28 per cento. Donald Trump propone di abbassare la tassa al 15 per cento (2,5 punti più della famigerata Irlanda), Hillary Clinton ribatte che questo sarebbe un regalo ai miliardari come lui. La conseguenza è che così permane l’interesse a usare sistemi analoghi a quelli realizzati da Apple in Irlanda, si legittima implicitamente il parcheggio in paradisi fiscali, si lascia in piedi un meccanismo che impedisce all’Ocse di definire lo schema che il G20 riconosce necessario implementare.
Riformare il sistema fiscale americano non rientra tra i compiti del commissario europeo alla Concorrenza; e ci vuole una bella dose di ottimismo per scrivere, come fa il Financial Times, che “il ruling dell’Apple potrebbe dare una spinta alla riforma della tasse sulle società statunitensi”. Servirebbe un’intesa tra i grandi blocchi, e invece la sua iniziativa ha provocato una risentita reazione degli Stati Uniti; servirebbe creare un ambiente favorevole agli investimenti in tecnologie informatiche, e invece il suo provvedimento retroattivo desta sospetti e preoccupazioni che riducono la propensione a investire; servirebbe favorire la concorrenza anche fiscale tra gli stati, e invece la combatte; servirebbe favorire la coesione tra i paesi europei, e invece aggiunge un ulteriore elemento di divisione.
Finisce dunque che ha ragione Tim Cook: questa non è una questione su quanto Apple paga di tasse, ma su chi le deve incassare.