(foto LaPresse)

Lezioni sull'industria 4.0 dalla Germania

Luciano Capone
Le nuove tecnologie digitali stanno rivoluzionando la manifattura: big data, robotizzazione, internet delle cose, cloud computing, intelligenza artificiale. Lo stato tedesco, che è la prima potenza manifatturiera d’Europa, è anche il paese più avanzato. Renzi, sulla robotizzazione intelligente, deve guardare alla vituperata Berlino.

Roma. Dopo diversi rinvii e qualche mese di attesa, il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda e il presidente del Consiglio Matteo Renzi presentano oggi a Milano, al Museo della scienza, il piano del governo sull’Industria 4.0. Il pacchetto di provvedimenti prevede superammortamenti, credito rafforzato per le imprese che spendono in ricerca e innovazione, detassazione del salario di produttività e individuazione di alcuni poli universitari di eccellenza su cui concentrare i fondi per il 4.0, evitando di polverizzare le risorse in mille rivoli. Calenda ha più volte dichiarato che verrà messa sul piatto una somma consistente (molto dipenderà dal tira e molla nella stesura della Finanziaria e dalla flessibilità europea) che verrà stanziata attraverso meccanismi automatici, quindi non attraverso bandi, in modo da non dover identificare in maniera dirigistica la tecnologia da premiare ex ante. L’operazione ha lo scopo di mobilitare le risorse e gli investimenti privati, che si muovono molto più velocemente (e quasi sempre più efficacemente) di quelli pubblici, per modernizzare il settore manifatturiero. L’obiettivo è quello di lavorare sull’offerta per migliorare la competitività del sistema produttivo per poter avere una crescita stabile e solida (in un certo senso l’opposto degli incentivi del governo per stimolare la domanda).

 

L’espressione Industria 4.0 spesso dà l’idea di meccanismi futuristici, che riguardano poche aziende e nicchie di mercato, lontane dall’“economia reale”. Invece non è così, si tratta di un cambiamento cruciale e attuale, che si può vedere già all’opera in paesi che sono partiti prima come la Germania. Ma cos’è l’industria 4.0? Si può dire che è la quarta rivoluzione industriale: come la produzione è stata trasformata dai telai meccanici e dalla macchina a vapore  nel ’700, dai motori e dall’elettricità nell’800 e dall’automazione e dall’informatica nel ’900, così le nuove tecnologie digitali stanno rivoluzionando l’industria manifatturiera: big data, robotizzazione, internet delle cose, cloud computing, intelligenza artificiale, sistemi di trasporto autonomi, ma anche ambienti produttivi flessibili, produzioni individualizzate, trasformazione dei processi produttivi e della logistica attraverso la digitalizzazione e soprattutto impiego di persone con alto capitale umano in grado di maneggiare le nuove tecnologie. E’ una rivoluzione che non riguarda solo le aziende, ma mercato del lavoro, formazione universitaria, ricerca e investimenti. C’è un paese che ha avviato questo percorso in anticipo e con risultati positivi, è la Germania. Il suo surplus commerciale, ancora ieri criticato da Renzi in trasferta americana, nasce pure da qui.

 

La Germania, che è la prima potenza manifatturiera d’Europa, è anche il paese più avanzato sull’Industria 4.0, essendo partita già nel 2007 con la High-Tech Strategy, un piano coordinato e pluriennale di investimento in ricerca e sviluppo in settori considerati strategici come le nanotecnologie, le biotecnologie e l’Ict. Il governo tedesco, più specificatamente il ministero dell’Economia e quello dell’Istruzione, ha creato anche la “Plattform Industrie 4.0”, una piattaforma che unisce le più importanti imprese del paese per discutere della strategia di lungo termine per l’Industria 4.0. A questo bisogna aggiungere che Berlino ha un consolidato sistema di formazione duale scuola-lavoro che riesce a fornire ai ragazzi le competenze adatte a trovare lavoro e alle aziende impiegati preparati a operare in “fabbriche intelligenti”.

 

La stessa sinergia tra pubblico e privato è presente nel mondo della ricerca. C’è da dire che in questo caso a fare la differenza è anche l’entità della spesa in ricerca e sviluppo, che in Italia è l’1,3 per cento del pil e in Germania il 2,8 per cento (oltre il doppio), ma molto conta la qualità della spesa. In Germania esistono due grandi infrastrutture che si occupano di ricerca e innovazione. La prima è la Società Max Planck (Max-Planck-Gesellschaft zur Förderung der Wissenschaften), un colosso che si interessa prevalentemente di ricerca di base con 83 istituti, 22 mila dipendenti (di cui oltre 13 mila scienziati) e con un budget pubblico di 1,8 miliardi di euro (a cui si vanno ad aggiungere le risorse private). Poi c’è il Fraunhofer Gesellschaft, un altro colosso che invece fa ricerca applicata con i suoi 67 istituti sparsi nel mondo, oltre 24 mila dipendenti (in maggioranza scienziati e ingegneri) e con un budget di 2,1 miliardi di euro, finanziato per il 30 per cento dallo stato e per il 70 per cento da  contratti con il settore privato per specifici progetti di ricerca.

 

Si tratta di una trasformazione che riguarda il mondo delle imprese, della ricerca, dell’istruzione e del welfare, che dovrà rapidamente abbandonare l’idea di conservare il posto di lavoro per invece tutelare il lavoratore inserendolo nei nuovi sistemi produttivi. Il timore di molti, come per ogni precedente rivoluzione industriale, è che la tecnologia distrugga posti di lavoro sostituendosi ai dipendenti. In realtà abbracciare l’Industria 4.0 è forse l’unica possibilità per salvare il tessuto produttivo di una potenza manifatturiera come l’Italia che, se non guadagna in produttività e competitività, rischia di essere spazzato via sul fronte dei costi dai paesi asiatici. Il Boston Consulting Group ha fatto uno studio sull’impatto dell’Industria 4.0 in Germania: entro il 2025 la robotizzazione e l’aumento di produttività faranno sparire 600 mila posti di lavoro, ma ne creeranno 950 mila meglio pagati, con un saldo netto di 350 mila nuovi posti di lavoro e una crescita addizionale dell’1 per cento del pil ogni anno.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali