Parabola del grande capo di Wells Fargo, dalle stalle alle stelle e ritorno
Roma. L’amministratore delegato e presidente di Wells Fargo, John Stumpf, era considerato la primula rossa della grande finanza – nel trambusto della crisi mondiale dell’ultimo decennio la sua immagine pubblica di banchiere era rimasta immacolata. Ora si trova a gestire uno scandalo reputazionale molto grave di cui conosceva i contorni ma per il quale ha soltanto chiesto scusa davanti alla commissione Bancaria del Senato americano senza tuttavia mostrare finora l’intenzione di dimettersi. Stumpf non è più considerato un banchiere irreprensibile dall’8 settembre scorso.
Wells Fargo ha dovuto pagare una multa da 185 milioni di dollari alle autorità di regolamentazione, da Washington a Los Angeles, per avere aperto circa 2 milioni di conti fantasma a ignari clienti dal 2011 almeno. La fetta più consistente di 100 milioni è la sanzione comminata dal Consumer Financial Protection Bureau, ovvero la multa più elevata imposta dall’autorità responsabile della salvaguardia dei risparmiatori nei sui cinque anni di attività. I conti erano creati in modo fraudolento per raggiungere certi obiettivi di produzione così da ottenere incentivi, con relativi oneri a carico dei clienti che ora dovranno essere risarciti. La banca ha licenziato 5.300 impiegati coinvolti nello scandalo – la più grande purga nella storia – ma forse non basterà a restaurare l’immagine della “banca degli americani”.
Wells Fargo, principale istituto di credito degli Stati Uniti, fondato a San Francisco nel 1852 dagli uomini d’affari William Fargo e Henry Wells (che contribuirono anche alla fondazione di American Express), ha attraversato la storia del paese, dai mitici calessi dell’epopea dell’oro, che sono il suo simbolo, fino a meritarsi l’immagine di banca amica di Main Street; la banca delle persone comuni distante per cultura aziendale dagli eccessi di Wall Street. Soprattutto per il suo modello di business, un modo tradizionale di fare credito, Wells era uscita dalla crisi finanziaria meglio delle sue concorrenti più spregiudicate. “Se dovessimo pensare a un film su questa storia [la figura di Stumpf] non potremmo chiamarlo The Wolf of Wall Street, lo intitoleremmo The Labrador of Main Street”, ha detto con ironia l’analista Mike Mayo al Financial Times. “Lui è l’immagine di Wells Fargo. Non va a Davos [l’happening del gotha della finanza]. Non si dà delle arie. Nei fine settimana bada ai suoi nipotini”. Stumpf, 63 anni, ha iniziato la carriera negli anni Settanta alla First Bank di St Paul in Minnesota. Si occupava di aiutare i clienti che erano rimasti indietro coi pagamenti a recuperare i beni che avevano lasciato in garanzia. Lontano oltre mille chilometri da Wall Street, Stumpf aveva un vissuto particolare per un futuro capitano di industria.
E’ un ragazzo di campagna, di famiglia cristiana, cresciuto in una fattoria del Minnesota con i suoi dieci fratelli, coi quali ha condiviso la camera finché non si è sposato. Era anche l’uomo giusto al posto giusto. E’ dal profondo nord degli Stati Uniti che negli anni Ottanta è passato il consolidamento dell’industria finanziaria americana mentre lui si trovava al vertice della Norwest che poi, nel 1998, è stata comprata da Wells Fargo e formare all’epoca la settima banca d’America per asset, con 90 mila impiegati, 20 milioni di clienti e 3 mila filiali. La sua fortuna adesso pare terminata ma in fondo gli mancano due anni alla pensione; se gli azionisti dovessero spingerlo a lasciare l’incarico di ceo, che ricopre dal 2007, e quello di presidente, dal 2010, è probabile una soluzione interna. Ieri ha lasciato il Federal Advisory Council della Fed.
L’epilogo, certo, non rende giustizia alla carriera ma è comunque una pagina deludente della saga di Wells Fargo. Il più grande investitore di sempre, Warren Buffett, è azionista della banca con il 10 per cento e ha deciso di non parlare della faccenda fino alle elezioni presidenziali dell’8 novembre. Per lui parlano le sue massime sulla finanza: “Fate perdere denaro all’azienda e io sarò molto comprensivo. Fatele perdere (anche) un’oncia di reputazione, e sarò spietato”. Non promette bene.
tra debito e crescita