Il presidente del Consiglio Matteo Renzi in visita allo stabilimento della Lamborghini (foto LaPresse)

Decifrare Def e Stabilità

Quanto scommettono Renzi e Boccia sulla produttività? Una guida

Alberto Brambilla
A elargire decontribuzioni senza avere la certezza di incentivare i contratti aziendali si rischia il déjà-vu Fornero. Se il modello Fiat è “teoria”.

Roma. Nella prossima legge di Stabilità il governo Renzi intende aggredire ancora quella che, secondo molti economisti e osservatori, è da decenni una delle cause principali del declino italiano: l’enorme deficit competitivo delle aziende tricolore, rispetto a quelle europee, che si manifesta nel calo patologico degli indici principali della produttività del lavoro, la produttività oraria e il costo del lavoro per unità di prodotto. Il governo vuole offrire alle parti sociali la detassazione dei premi di produzione – il costo per la fiscalità generale prevedibile è di 500 milioni, sarà chiarito oggi con la nota d’aggiornamento del Documento di economia e finanza (Def) – per incentivare le imprese e i sindacati a legare gli aumenti di retribuzione dei dipendenti all’output dell’azienda, prassi che giocoforza porta a privilegiare i contratti aziendali (è in azienda che si realizza lo “scambio”) rispetto al contratto nazionale che è la ragion d’essere per alcuni sindacati dei lavoratori e dei produttori. Tuttavia c’è un precedente che dovrebbe mettere in guardia il governo rispetto alla disponibilità, pur dichiarata, di sindacati e Confindustria ad a assecondare la contrattazione aziendale. Nel 2013 il governo Monti, dopo un accordo con la Confindustria allora presieduta da Giorgio Squinzi, la Cisl e la Uil – la Cgil non firmò – stanziò 1,6 miliardi di euro per la detassazione dei salari di produttività nel  2013-’14 ma non ottenne cambiamenti nel modus operandi sindacale. Anzi: Cgil, Confindustria, Uil e Cisl firmarono poi in separata sede un accordo in cui s’impegnavano a rispettare sempre e comunque il contratto nazionale. 

 

Il Foglio scrisse nel maggio 2013 che per questo motivo la “produttività è fottuta”. L’allora ministro del Lavoro, Elsa Fornero, dichiarò che l’operazione montiana “non ha funzionato e che di risultati tangibili sulla produttività non ci sono stati” perché uno sviluppo positivo “ci sarà quando avrà cambiato i comportamenti e quando avrà indotto le parti sociali a fare accordi, a capire che la defiscalizzazione è uno strumento per rendere il lavoro più produttivo e non solo per mettere soldi nelle tasche dei lavoratori”. Ovvero si era ben distanti dal realizzare la modernizzazione del lavoro italiano secondo il modello della Fiat di Sergio Marchionne e riprodurre il tandem tedesco Schröder-Hartz che nel 2003 fece della contrattazione decentrata la spina dorsale dell’industria manifatturiera in Germania. I risultati dell’incontro pigro tra Confindustria e sindacati sono ancora da vedere: il 15 settembre il ministero del Lavoro ha comunicato che sono soltanto 15 mila i contratti aziendali depositati nei primi sei mesi del 2016 e solo 1.480 prevedono un piano di partecipazione dei lavoratori.

 

L’incentivo non sembra insomma ottenere gli effetti desiderati. La storia sembra ora ripetersi con tonalità diverse ma con identica sostanza: Vincenzo Boccia, dopo l’elezione a presidente di Confindustria a maggio, ha sostenuto, in sintonia con le intenzioni di Renzi, che “gli aumenti retributivi devono corrispondere ad aumenti di produttività” e che il contratto aziendale “deve essere centrale per realizzare lo scambio tra miglioramenti organizzativi, quindi produttività, e salario”. D’altronde per mesi Renzi aveva detto: “O sindacati e Confindustria fanno l’accordo (sulla contrattazione aziendale, ndr) o ci pensiamo noi. E’, tempo di mettere fine ai continui rinvii”. Era il gennaio 2016 e le parti sociali si dicevano d’accordo. Mesi dopo, però, siamo ancora ai continui rinvii. La Confindustria ha mutato la sua postura: intervistato da Repubblica lo scorso 31 agosto, Boccia ha invertito l’ordine dei fattori e anteposto gli sgravi fiscali alla riforma dei contratti: “Più che cambiare le regole dobbiamo rendere conveniente per imprese e lavoratori il salario di produttività detassato. Se si rafforza questo meccanismo sarà più semplice poi passare alla modifica delle regole. Viceversa se partiamo dalla teoria rischiamo di non andare molto avanti”. Intanto lo scorso 14 luglio Confindustria e sindacati hanno siglato un’intesa per realizzare accordi su base territoriale con le imprese, non sindacalizzate e più piccole, ai fini delle decontribuzione legata a incrementi di produttività e altri indicatori: sembra un escamotage per cui un contratto “aziendale” viene siglato se rispetta i criteri delle centrali sindacali ma non è davvero frutto della contrattazione in azienda tra lavoratori e impresa. Sulla carta gli sgravi sono più che utili. Ma solo leggendo le condizioni poste dalla Stabilità si capirà se è sventato il rischio che quegli sgravi vengano utilizzati unicamente da grandi imprese che già hanno in vigore accordi di produttività, o magari per detassare dei normali aumenti salariali fissi.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.