Pensione ossessione
Dal confronto tra governo e sindacati di oggi arriverà un’altra sventagliata di miliardi sulle pensioni, mentre il Parlamento si appresta a varare l’ottava salvaguardia per gli esodati. Per quanto riguarda il lavoro, la montagna partorirà il topolino delle limitazioni ai voucher, uno strumento che sta funzionando alla grande. Ma si può vivere in un paese ossessionato dalle pensioni? Sul tema esiste una campagna mediatica – soprattutto televisiva – che ha ben poco di serio ma che troppo spesso manda in scena vere e proprie liti da osteria. Non hanno più legittimità i dati di fatto; contano solo le istanze, le rivendicazioni, le più diverse tra di loro.
Un problema cruciale come quello della tenuta dei sistemi pensionistici obbligatori viene presentato ormai come “una variabile indipendente’’ che prescinde da tutto quanto, invece, ne condiziona non solo la sostenibilità ma ne garantisce pure la permanenza. Ci riferiamo alle grandi questioni dell’invecchiamento e della denatalità che insieme convergono a trasformare la struttura della popolazione e dello stesso mercato del lavoro; alle esigenze di incremento dell’occupazione e del monte retributivo onde garantire un adeguato apporto sul versante delle entrate in un modello di finanziamento a ripartizione (sono i contribuenti a finanziare le pensioni in essere).
Ciò presuppone che vi sia anche crescita e sviluppo dell’economia, senza dimenticare mai che le simulazioni sulla sostenibilità del sistema sono costruite su indicatori di incremento del pil (1,5 per cento annuo medio) che non si realizzano da lustri e che sono in dubbio in futuro. Affrontare il tema della previdenza fuori da questo quadro di riferimento conduce sul binario morto della protesta impotente, della voglia di gogna, della nostalgia per la pensione facile, generosa e anticipata il prima possibile. Sembrerebbe quasi che, nel passaggio dal lavoro alla pensione, dovessero cambiare le regole, grazie all’intervento di un Supremo giustiziere che dà a ciascuno non secondo i suoi meriti (quanto a lungo ha lavorato, quanto ha versato o quanto ha evaso, eccetera) ma secondo i suoi bisogni. Del resto, la rappresentazione “tipizzata’’ del pensionato italiano è quella di una persona vecchia, macilenta, che racconta di vivere con redditi da paese in via di sviluppo. Ciò mentre incombono le inique “pensioni d’oro’’, i vitalizi e quant’altro eccita l’invidia sociale. Purtroppo, casi di povertà estrema esistono.
Ma non rappresentano la condizione prevalente degli anziani in Italia, come dimostrano tutte le statistiche, le indagini e le pubblicazioni ufficiali e specializzate. Anzi, sono le famiglie di pensionati che – nonostante tutto – hanno affrontato meglio (o, se vogliamo, meno peggio) gli effetti della crisi. Ecco perché occorre molta cautela nel destinare – come sta avvenendo – risorse importanti alla spesa pensionistica, con l’ossessione di agevolare chi è già pensionato, ma soprattutto chi è prossimo a esserlo. Tutti provvedimenti – anche quelli certamente interessanti come l’Ape – che non riguardano certo i giovani. Era scontato che l’Ape suscitasse delle critiche. Non ci aspettavamo – visto il suo ruolo istituzionale – il “grido di dolore’’ di Tito Boeri, presidente-tuttofare dell’Inps, per il quale le proposte valide sono soltanto le sue. Boeri ha scoperto che, se l’Ape comporta un onere, per l’Erario, di 500 milioni annui, in vent’anni esso sale a 10 miliardi.
Il fatto è che la proposta Boeri sarebbe costata di più, come ha confermato l’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb): “La corrispondente maggiore spesa sarebbe di circa 1,5 miliardi di euro per il primo anno, aumenterebbe a superare i 4,9 miliardi nel 2019, poi diminuirebbe gradualmente a circa 3,8 nel 2025’’. E quella di Cesare Damiano? Ecco, di nuovo, la parola all’Upb: “Lo scenario ‘Damiano’ genererebbe una maggiore spesa di oltre 3 miliardi di euro nel 2017 e di poco più di 6 nel 2018, nel 2019 e nel 2020, poi gradualmente crescente tra il 2020 e il 2024 a raggiungere la soglia di 8 miliardi di euro’’. Meglio l’Ape, allora.