Renzi sulla “flessibilità” chiede un favore ai contribuenti, non a Merkel
Roma. Quando Matteo Renzi dice: “I soldi che spendiamo per migranti e terremoto, soprattutto per le scuole, non li voglio conteggiati nel Patto di stabilità, non peseranno più e se l’Unione europea si mette contro lo facciamo lo stesso: è un rispetto delle regole che si chiama clausole eccezionali”, fa al tempo stesso un appello al buon senso, una mossa elettorale, ma anche una promessa un po’ ambigua ai contribuenti italiani. E pare che in questa direzione si stia andando ora che l’aggiornamento al Documento di economia e finanza è stato approvato ieri sera dal Consiglio dei ministri, dopo l’ennesima trattativa con Bruxelles sui margini di flessibilità per l’Italia.
Trattativa vagamente benedetta dal commissario europeo agli Affari economici, Pierre Moscovici: “Il dialogo con Roma è positivo, purché la flessibilità sia dentro le regole”. Al di là dei mandarinismi, il deficit del 2017 anziché scendere all’1,8 per cento del pil dovrebbe quantomeno assestarsi al 2,1-2,2: quattro decimali in più tra terremoto ed emergenza migranti. Cioè 7-8 miliardi; e deficit in discesa rallentata – ma visti i precedenti è meglio aspettare i calcoli definitivi dell’Istat. Se poi i decimali “flessibili” concessi da Bruxelles fossero cinque o sei, come dicevano ieri sera a Palazzo Chigi prima del Consiglio dei ministri, si arriverebbe a un disavanzo pubblico del 2,3-2,4, lo stesso del 2016.
Ma, appunto, il problema è un altro, ed ecco l’ambiguità della promessa renziana e di come viene intesa. Che cosa si intende – ad essere malevoli, che cosa vuol far credere il governo – per flessibilità? Soldi che l’Europa o Angela Merkel restituiscono all’Italia? Ovviamente no, si tratta di denari nostri (in questo Renzi ha ragione), il che però vuol dire che saranno tutti gli italiani a pagarli, prima o più probabilmente poi, visto il debito che non scende.
Ecco perché sarebbe utile, in un mondo ideale, accompagnare le manovre finanziarie con una guida che indichi di quanto aumenta, o nel caso diminuisce, e dove l’aggravio fiscale. Paradossalmente questo accade con le clausole vagamente vessatorie che da anni costituiscono la croce di ogni premier e ministro dell’Economia: le “salvaguardie”, cioè le ipoteche poste a garanzia dell’Europa se non vengono centrati gli altri obiettivi di finanza pubblica. Su chi le abbia introdotte e perpetuate c’è scaricabarile, gli atti ufficiali però consentono di individuarne le prime nel 2011, governo Berlusconi-Tremonti agli sgoccioli, per 40 miliardi nel triennio successivo. Il presidente del Consiglio “tecnico” Mario Monti ne smaltì subito 33, lasciandone 7 al suo successore Enrico Letta. Il quale ne ha subito emesse per altri 20 miliardi sul 2015-2017. L’ultima, da coprire il prossimo anno, ne vale 15,3; ma poi Renzi ci ha aggiunto del suo, 5 miliardi per il futuro.
Come ricostruisce il viceministro dell’Economia Enrico Zanetti, fonte non sospetta, queste clausole hanno però il pregio della chiarezza: “Dicono come e a chi prendere i soldi”. Quella di Berlusconi-Tremonti con un taglio lineare di detrazioni e deduzioni fiscali, quelle lettiane da un aumento di due punti delle aliquote Iva (Renzi vi aggiungerà il rincaro delle accise sulla benzina). Su un totale di 70 miliardi di clausole 2016-2018, il premier ne ha azzerate per 37; restano i 15 miliardi del prossimo anno e i 18 del 2018, che il premier vorrebbe fortemente destinare al taglio dell’Irpef, che così assumerebbe le dimensioni di una salutare frustata fiscale. Per farlo però bisogna mettere mano ad altri tagli – la spesa pubblica proprio no? –, non dare alla Merkel colpe che in questo caso non ha, dire ai contribuenti parole chiare: su chi risparmia, e quanto, o viceversa paga il conto.