Da Wells Fargo a Deutsche Bank: prove generali di darwinismo bancario
Milano. “Wanted: dead or alive”. Il manifesto, con la faccia del ceo di Wells Fargo, John Stumpf, vestito come Billy the Kid, potrebbe essere esposto da oggi a Sacramento, California, all’ingresso di uno degli undici musei che l’istituto ha allestito in giro per gli Stati Uniti, per celebrare la storia della banca che ha fatto la storia della finanza americana, tra carovane, cowboy e fuorilegge. Qui, sul portone del museo più importante, lo sceriffo Warren Buffett, primo azionista della banca, ha affisso la taglia per il presidente: 41 milioni di dollari, la somma che il cda ha deciso di confiscare al banchiere, sequestrando stock option, bonus, liquidazione e stipendi di quello che, fino a un mese fa, era considerato un banchiere modello. Poi s’è scoperto che per centrare gli obiettivi di bilancio (e riscuotere i relativi benefit) Stumpf ha fatto aprire due milioni di conti correnti e carte di credito fittizie fatturando agli inconsapevoli clienti servizi inesistenti. La vicenda finirà nei tribunali. Ma, ancor prima dei giudici, è entrata in funzione la legge del West; prima della galera (o del patteggiamento di cui hanno usufruito i banchieri dopo la crisi del 2007-’08) il colpevole deve pagare di tasca sua, il più in fretta possibile. Nelle stesse ore del board della banca di San Francisco, in quel di Vienna Andreas Dombret, il consigliere della Bundesbank incaricato della supervisione sulle banche, bocciava l’idea che la Banca centrale o il governo tedesco dovessero farsi carico della crisi di Deutsche Bank o di quella, altrettanto urgente e grave, di Commerzbank.
Molte banche dovranno sparire come i dinosauri che, sillaba il banchiere, “credevano che le loro dimensioni li preservassero dalla scomparsa”. Una profezia sinistra piovuta sul mercato poco dopo un servizio ben informato del settimanale Focus che riflette una simile filosofia darwiniana: Angela Merkel, si legge, non intende intervenire in aiuto di Deutsche Bank né di fronte alle richieste (14 miliardi di dollari) avanzate dalle autorità americane per i reati commessi nella stagione dei subprime, né per garantire un rafforzamento del patrimonio dell’istituto, esposto sui derivati per un importo ben superiore al pil tedesco. Tanta rigidità, confermata dalla secca smentita di ieri un articolo della Zeit che, al contrario, parlava di un piano a difesa delle banche (segnale che a Berlino le opinioni sono divise), ha almeno due spiegazioni: l’ostilità dell’opinione pubblica in Germania come negli Stati Uniti a interventi pro banche. Ma anche, se non soprattutto, la volontà di evitare un precedente che deroghi al bail-in e renda possibile un intervento pubblico a favore delle banche dell’Europa mediterranea, italiane in particolare.
Una strategia, quella di Berlino, che toglie il sonno ai grandi banchieri Usa: Angela Merkel, si legge in un editoriale di Market Watch, deve salvare Deutsche Bank e la Germania deve smettere di porre paletti all’Italia. Altrimenti cadrà l’Europa e trascinerà con sé il mondo, dice il columnist Matthew Lynn. Insomma, l’America può consentirsi oggi di punire i banchieri per i loro errori. L’Europa non ancora. Per Deutsche Bank non è facile trovare una quadra, a meno che non ci pensi Erdogan: Yigit Bulut, consigliere economico del presidente turco, ha detto ieri che un nuovo fondo sovrano o un gruppo di banche di stato potrebbero essere interessati a comprarla.