"L'integrazione europea? Ci siamo fermati. Anzi, arretriamo". Parla Visco
Roma. “Una moneta non può rimanere senza stato, punto”. Ignazio Visco, intervistato dal Foglio nel luglio 2015 sulla crisi dell’Eurozona, fu tranchant. Ieri il governatore della Banca d’Italia, in un’intervista con questo giornale, ha aggiornato quell’analisi e non certo al fine di imbellettarla: “Sull’integrazione comunitaria ci siamo fermati, e anzi abbiamo arretrato”. Palazzo Koch e il paese tutto lo hanno sperimentato sulla propria pelle questo arretramento, per esempio quando “una certa interpretazione delle regole europee” ha impedito una soluzione di sistema sulle sofferenze che affliggono i nostri istituti di credito, soluzione che pure Visco aveva caldeggiato fin dall’inizio del 2014. E’ “nell’interesse comune dei cittadini europei” che il banchiere centrale scandisce un appello a smetterla con la “veduta corta” delle leadership nazionali che “non riescono ad ancorare il processo di integrazione a un progetto trainante, quale esso sia, la politica dell’immigrazione, la difesa comune, eccetera”. Poi un appello a “farla finita” con “la mancanza di fiducia reciproca” tra i paesi membri.
Smettiamola, in effetti. Allora perché, nonostante gli sforzi riformatori che pure negli ultimi anni non sono stati completamente assenti – dalle pensioni al lavoro, dalle banche popolari al contenimento della spesa pubblica – il tasso di crescita italiano rimane il peggiore d’Europa? “I nostri difetti vengono da lontano – dice Visco – Ce n’è uno che si chiama debito pubblico. Un altro è l’impreparazione rispetto a due grandi eventi avvenuti negli anni 90: la globalizzazione e la rivoluzione tecnologica che vi era annessa, poi l’adesione all’unione monetaria con l’abbandono del tasso di cambio come strumento di politica economica. Adeguare l’ambiente economico in cui si svolge l’attività di impresa al nuovo contesto non è cosa che si possa realizzare in pochi anni. Sono state definite o avviate riforme importanti – pensioni, lavoro, pubblica amministrazione, scuola – alcune ancora da attuare appieno, ma importanti erano e sono anche i problemi da affrontare; il lavoro da fare resta tanto. Cambiare la struttura del sistema produttivo di un paese richiede ancora più tempo. Le imprese si stanno adeguando a questo scenario, ma con ritardo: in tutti questi anni la produttività è stata stagnante, hanno scarseggiato gli investimenti, abbiamo puntato soprattutto sul contenimento del costo del lavoro sfruttando male la flessibilità introdotta nelle forme contrattuali”. A completare la spiegazione dell’effetto ritardato delle riforme Visco cita una “incertezza” diffusa. “Incertezza politica in particolare a livello europeo, tensioni geopolitiche, incertezza legata agli effetti delle nuove tecnologie e alle tendenze demografiche. Tutto questo, andandosi a sommare alle debolezze che citavo prima, ha un effetto amplificato sul nostro paese”.
Iniziamo dall’incertezza politica. “Le scelte europee appaiono condizionate da una veduta corta, non indipendente dal succedersi degli appuntamenti”, dice Visco. Al quale non sfugge che anche l’Italia è entrata in pieno ciclo elettorale, vedi il referendum del prossimo 4 dicembre sulla riforma costituzionale voluta dal governo Renzi e approvata dal Parlamento. Gli chiediamo di esprimere una valutazione sul confronto in corso tra i fautori del “sì” e quelli del “no”, osservando come nelle ultime Considerazioni finali del maggio scorso non fossero spiccati accenni alle riforme istituzionali come invece era stato in passato. “Veramente un riferimento c’era eccome, e sto pensando alla citazione di Altiero Spinelli e del suo progetto per una Unione europea di un certo tipo. In grado di governare e allo stesso tempo democraticamente legittimata. Oggi l’Italia e l’Europa devono procedere lungo un percorso di cambiamento, che riguarda certo anche le istituzioni, senza drammatizzare le conseguenze economiche e finanziarie di una scelta o dell’altra”.
Le scelte della politica impattano poi sull’economia e sul credito in particolare. Sul primo fronte, lunedì prossimo la Banca d’Italia dirà la sua in Parlamento sul Documento di economia e finanza (Def) appena approvato dall’esecutivo, e Visco ci tiene a evitare comunque ogni invasione di campo. La vexata quaestio della “flessibilità” fiscale lo appassiona fino a un certo punto: “Le regole europee sono lì perché l’Unione monetaria è incompleta e quindi alcuni vincoli precisi hanno il compito di evitare conseguenze finanziarie negative per tutta l’area che possono discendere dalle misure di bilancio dei singoli stati. Superare il 3 per cento del deficit, ipotesi che non mi pare sul tavolo, considerato anche che l’Italia su quel fronte è stata attenta fin dalla nascita dell’Unione monetaria, vorrebbe dire violare una di queste regole. Dal mio punto di vista, i vincoli alla nostra politica di bilancio non vengono dalle regole europee, ma dall’elevato debito pubblico e dalla necessità di rifinanziarlo ogni anno sul mercato per importi rilevanti”.
E sulle pensioni, che tanto occupano la politica? Su questo Visco esorta a partire da un dato di fatto: “Oggi, dopo un percorso di riforme durato un ventennio fino a quella del 2011, la previdenza pubblica è in condizioni finanziarie equilibrate. E’ un risultato positivo. Su questo fronte siamo intervenuti prima e meglio anche di tanti paesi europei”. Perché allora, dal 2011 a oggi, i governi di ogni colore sono sembrati impegnati solo a rosicchiare i risparmi generati da quella riforma, cedendo almeno in parte agli appelli a smantellarla? “L’equilibrio finanziario raggiunto è bene che non sia cambiato – replica il governatore – Certo non è impossibile pensare a ritocchi per alcune categorie di lavoratori o per alcune situazioni particolari che comunque non incidano su quel sano impianto contributivo. Il punto vero è continuare a ragionare su come rispondere ai problemi di invecchiamento demografico che, come Banca d’Italia, esortiamo a considerare ormai dagli anni 80. Di fronte a ciò, un approccio immediato che incentivi l’uscita di alcuni lavoratori da quei settori specifici in cui c’è un eccesso di forza lavoro è comprensibile. Sbagliato invece pensare che favorendo in maniera sistematica l’uscita dei lavoratori più anziani si incentivi l’ingresso dei giovani. Non foss’altro perché molte di queste uscite sono legate a cambiamenti tecnologici radicali e a sparizioni tout court di certi mestieri. Allora, piuttosto che generalizzare la corsa a uscire dal mercato del lavoro, meglio investire in maniera massiccia su formazione e aggiornamento, alternanza di tempo pieno e tempo parziale, mentoring e altro”.
Passiamo alle banche. Chiediamo al governatore Visco: è vero che da qui a pochi mesi potremmo assistere ad aumenti di capitale di oltre 20 miliardi di euro nelle banche italiane? “Non mi sembrano queste le cifre. Continuo a ritenere che la debolezza attuale delle nostre banche rifletta per la maggior parte una debolezza dell’economia reale. Dall’inizio della crisi nel 2008, il pil è caduto di quasi il 10 per cento, la produzione industriale del 25 per cento, gli investimenti del 30 per cento”. Il numero uno della Banca d’Italia ci tiene a precisare che questa analisi non vuole apparire come l’accettazione dello status quo di fronte al quale le banche che Palazzo Koch supervisiona insieme alla Banca centrale europea possano restare inerti: “Non soltanto le sofferenze potevano essere trattate in maniera più dinamica, e non come business as usual. Abbiamo sottolineato da tempo che la redditività scende anche a prescindere dalla crisi contingente. E’ in corso un processo di cambiamento tale, nel settore, che si aprono soltanto due strade, entrambe obbligate: la riduzione dei costi degli istituti e l’innovazione del modello di business. Non partiamo da zero, le nostre banche più grandi hanno modelli manageriali all’altezza degli standard europei. Tutte però devono confrontarsi con il fatto che i servizi richiesti da imprenditori e cittadini stanno mutando nel contenuto e anche nelle modalità di fruizione”. Negli scenari futuri, lei ritiene di escludere interventi di nazionalizzazione di banche? “Senza volermi riferire a casi specifici, ho già detto che per quanto possa essere un’evenienza remota, è saggio prepararsi anche all’ipotesi di un intervento pubblico, pur se ciò non vuol dire che sarà necessario. Al momento però le regole europee considerano l’intervento pubblico l’extrema ratio, ammissibile soltanto per evitare l’insorgere di un rischio sistemico, e con la partecipazione possibile di azionisti e creditori”. Il bail-in che ogni volta torna a fare capolino: “Ci tengo a precisare che io non lo ritengo inopportuno di per sé. Ribadisco piuttosto che le procedure del bail-in sono state introdotte troppo velocemente, senza prima introdurre strumenti finanziari espressamente disegnati per essere sottoposti alle nuove regole”. Se la nazionalizzazione è ipotesi remota, più probabile è l’ingresso massiccio di capitali stranieri negli istituti di credito italiani in cerca di nuova linfa: “Non è importante la nazionalità degli azionisti ma la loro capacità di garantire stabilità. A questo mirano le recenti riforme della governance bancaria, a consentire che azionisti attenti e attivi ponderino rischi e rendimenti, garantendo finanziamenti adeguati all’economia reale”.
Quanto al capitolo “incertezza geopolitica ed europea”, dell’arretramento del processo comunitario lei ha già detto. Cosa pensa invece del fatto che ci avviciniamo alla scadenza formale del Quantitative easing (Qe), allentamento quantitativo, avviato dalla Banca centrale europea nel marzo 2015 e destinato forse a scemare dal marzo 2017? “Il Qe non scade a marzo del 2017. Invece di speculare, dovremmo rimanere fermi al comunicato che tutti noi governatori abbiamo sottoscritto un anno e mezzo fa. Vi si leggeva che l’acquisto di asset per un ammontare di 80 miliardi di euro al mese sarebbe durato fino al marzo 2017 o oltre se necessario. Ripeto: o oltre, se necessario a riportare l’inflazione verso valori coerenti con la stabilità dei prezzi. E in ogni caso abbiamo detto che i tassi di interesse resteranno bassi a lungo”. Poi Visco ci tiene a sfatare l’idea che il Qe disincentivi le riforme: “Io ritengo all’opposto che le renda più facili, attenuando almeno alcuni dei loro possibili effetti negativi di breve periodo, in termini di domanda aggregata e di sostegno al processo di riforma. Vogliamo provare a pensare a cosa sarebbe successo se, oltre a tutte le forme di incertezza che ho elencato, l’Europa avesse dovuto affrontare anche una politica monetaria non accomodante e disallineata dai fondamentali?”. Il governatore insomma, sul futuro del Qe, assicura che come tutti i suoi colleghi analizzerà con attenzione i risultati – anche in termini d’inflazione effettiva e attesa – che saranno stati raggiunti all’inizio del prossimo anno e prima di decidere sulla prosecuzione del programma. Intanto però ferve il dibattito teorico, e non solo, su nuove forme di espansione monetaria: l’helicopter money, per esempio, oppure l’overshooting temporaneo rispetto all’obiettivo d’inflazione statutario del 2 per cento, cui hanno fatto riferimento Liikanen, governatore della Banca di Finlandia, e il belga Peter Praet, membro del Comitato esecutivo e capo economista della Bce: “Stanti le regole attuali e stanti soprattutto i precedenti storici di elevata inflazione degli anni 70, direi che è fuori luogo prospettare un’invasione della politica monetaria nell’ambito della politica fiscale, come invece comporterebbe l’helicopter money. La seconda ipotesi è invece quasi una questione di semplice aritmetica: se nel medio periodo l’obiettivo è dato, e se a lungo si è stati sotto quell’obiettivo, è comprensibile che si debba superare quell’obiettivo per un certo periodo di tempo. Detto ciò, oggi il problema su cui concentrarsi è ancora come arrivare vicini al 2 per cento”. Perché la Bce, arrivata a questo punto, ritiene di dover costituire al suo interno una task force che monitori le riforme strutturali, come svelato da Bloomberg la scorsa settimana? “Non commento su singole iniziative. In ogni caso non si intende certo forzare la mano ai governi e alla politica. L’impatto delle riforme lo abbiamo sempre studiato a livello nazionale, è ovvio farlo in chiave comparata anche in Europa. Le convinzioni di partenza sono altre: c’è il fatto che gli effetti della politica monetaria sono più lenti a manifestarsi se non c’è il sostegno delle altre politiche, quella di bilancio e quella delle riforme strutturali; da sola la politica monetaria non può cambiare il potenziale di crescita dell’economia”.
I tempi dell’impegno dei tecnici in politica sono finiti per il nostro paese? “La recente scomparsa di Carlo Azeglio Ciampi mi ha dato modo di riflettere su un punto. I tecnici li abbiamo avuti, negli anni 90 in Italia, non perché i politici non sapessero di cosa parlavano, ma piuttosto per la dimestichezza con gli ambienti internazionali che i nostri tecnici avevano, per il valore del punto di vista di un esterno al sistema politico in momenti particolarmente difficili. Il grande lascito di Ciampi rimane comunque la sua fiducia negli italiani, allo stesso tempo una sfida e un paradosso. E un’altra cosa: non gli sarebbe piaciuta la politica urlata, questo è certo”.
Prima di lasciarci, ci può dire un aspetto che in particolare la sconforta sullo stato dell’economia italiana e un altro che invece la rincuora? “L’elevato tasso di disoccupazione giovanile è l’aspetto più angoscioso della lenta ripresa economica del nostro paese. Mi incoraggia invece la risposta che sta fornendo il settore manifatturiero, sotto pressioni congiunturali ma anche strutturali come in tutto l’occidente. I numeri dell’export italiano mostrano che la nostra manifattura è ancora in grado di conquistare mercati”. Anche da qui, è il messaggio sottinteso, si dovrà tentare di ripartire per davvero.