Fondazione Bertelsmann, Deutsche Bank e altri tedeschi anti euroapocalisse

Marco Cecchini
Lo studio che lancia una serie di proposte da attuare qui e ora, una specie di kit di pronto intervento perché l’euro è a rischio

Roma. Se Franklin Delano Roosevelt rivolgesse oggi agli europei la celebre frase pronunciata durante la Grande depressione, “l’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa”, probabilmente non l’ascolterebbe nessuno. La paura del futuro sembra infatti il sentimento dominante nell’Europa del dopo Brexit. E tocca perfino coloro che del Vecchio continente dovrebbero tenere  le redini. Di recente il Financial Times ha parlato di un tono “scoraggiato, quasi disperato che pervade il linguaggio dei leader europei”, alludendo al presidente del Consiglio Ue, Donald Tusk, e a quello della Commissione, Jean-Claude Juncker. Angela Merkel, che guida il paese chiave, la Germania, segue una linea pragmatica il cui principale obiettivo è, in questa fase, mantenere la coesione del club di fronte alle forze centrifughe rappresentate dai membri dell’est Europa e alla crescita dei populismi.

 

Ma la domanda è se questa strategia dei piccoli passi che è diventata di fatto la linea dell’Unione sia adeguata alle difficoltà del momento. La Fondazione Bertelsmann di Berlino e l’Istituto Delors di Parigi per esempio rispondono sostanzialmente di no. In uno studio comune, intitolato “Growth and the Euro after Brexit”, i due istituti lanciano una serie di proposte da attuare qui e ora, una specie di kit di pronto intervento perché l’euro, dicono, è a rischio: “Non sappiamo quando arriverà la prossima crisi, se sarà tra sei settimane, sei mesi o sei anni, ma arriverà e temiamo che l’Unione economica e monetaria non sia preparata ad affrontarla”. La Fondazione Bertelsmann e l’Istituto Delors sono due centri di provata fede europeista di cui fanno parte personalità che hanno ricoperto ruoli di primo piano nei rispettivi paesi (Enrico Letta, Jörg Asmussen, Pascal Lamy, Philippe Maystadt, António Vitorino): l’allarme che lanciano fotografa dunque il livello di rischio cui è giunta la costruzione europea.

 

Visto il deficit di credibilità in cui versano le istituzioni comunitarie, lo studio punta a un maggior coinvolgimento da subito dei governi e dei parlamenti nazionali nei processi decisionali abbracciando, almeno nella prima fase di approntamento delle difese anticrisi, un approccio tendenzialmente intergovernativo. Il tentativo è quello di scuotere i governi, smascherare l’illusione che la Banca centrale europea possa ancora una volta risolvere la situazione. Ciononostante lo scarto tra il progetto riformatore e la sua realizzabilità politica nel contesto attuale appare significativo. La prima fase prevede il rafforzamento del Fondo salva stati (Esm), il completamento dell’Unione bancaria e il coordinamento delle politiche economiche “nell’ambito di un più forte controllo democratico”. La seconda fase fissa l’agenda delle riforme strutturali nazionali e un piano di investimenti. L’ultima fase approda infine a una governance economica sovranazionale basata sulla condivisione dei rischi e la cessione di sovranità. Visto attraverso le lenti della cronaca europea di tutti i giorni, il progetto rischia di assomigliare a un libro dei sogni.

 

Con un ciclo elettorale come quello che attende Italia (con il referendum), Austria, Olanda, Francia e Germania (con le elezioni politiche) è assai probabile che la strategia attendista prevalga. Anche se un sondaggio contenuto nello studio rivela che il 46 per cento dei cittadini dell’Eurozona – il 58 per cento in Italia – ritiene urgente riformare l’Unione. Che questo non sia un tempo da business as usual lo rivela anche un’analisi della Deutsche Bank di New York che rovescia la prospettiva dell’austerità. Secondo gli economisti della banca tedesca, che ieri ha smentito di avere bisogno di alcun aiuto dal governo di Berlino per gestire il maxi-contenzioso da 14 miliardi di dollari per i mutui negli Stati Uniti,  “l’Europa deve riconoscere che la politica monetaria da sola non basta a far ripartire la crescita e che servono pertanto misure di stimolo fiscale”. Deutsche Bank propone un piano di investimenti europeo  da 130 miliardi in 3 anni e un aumento della spesa pubblica in particolare nei paesi a basso debito come la Germania. “Qualche stato potrà anche superare il tetto del 3 per cento di deficit/pil, ma ne varrà la pena”.

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