Tra Deutsche Bank e Mps, tutte le letture geopolitiche sul caos bancario europeo
Roma. Le azioni delle banche italiane vengono scambiate in Borsa “a sconto” rispetto a quelle della concorrenza europea, con un differenziale che si sarebbe ampliato nello scorso mese fino al 30-32 per cento, secondo gli analisti di Credit Suisse. I quali ieri, in un report per i clienti, hanno spiegato che ad allontanare gli investitori contribuiscono “le incertezze politiche, gli elevati stock di Npl (non performing loans, ndr) e la percezione di un rischio sistemico”. Lo scenario dell’uscita dell’Italia dall’euro – successivo a una eventuale vittoria del No al referendum costituzionale seguita da dimissioni del presidente del Consiglio Matteo Renzi e ascesa del Movimento 5 stelle – “richiede una sequenza di eventi improbabili o internamente incoerenti”. Eppure già ipotizzarlo ieri ha contribuito a deprimere i titoli bancari a Piazza Affari. Al punto che il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, si è messo quasi sulla difensiva, dopo aver evocato due giorni fa – intervistato dal Foglio al Teatro Parenti di Milano – “una crisi di sfiducia” in caso di vittoria del No al referendum: “Se c’è un timore a livello internazionale che lega l’esito del referendum alla stabilità dei mercati – ha detto ieri il numero uno di Via XX Settembre – non è qualcosa che ho messo in giro io, è qualcosa che gli ‘investment bankers’ fanno regolarmente, purtroppo ormai da settimane”. Nel pieno di nuove turbolenze del settore del credito in Europa, le banche allo stesso tempo sono percepite come attori minacciosi della politica internazionale. L’Italia non è l’unica arena di questa forma di estrema “politicizzazione” degli istituti. Un esempio viene dalla Germania e dalle polemiche geopolitiche che montano attorno a Deutsche Bank.
Lunedì scorso il tedesco Peter Ramsauer, presidente della commissione per gli Affari economici del Bundestag, in un’intervista ha paragonato la minacciata multa americana di 14 miliardi di dollari nei confronti di Deutsche Bank a “un’estorsione” con “tutte le caratteristiche di una guerra economica”. Dichiarata, ovviamente, da Washington nei confronti di Berlino. Markus Feber, un altro politico tedesco, ha fatto capire che la mega ammenda in questione sarebbe una sorta di ripicca americana alla decisione della Commissione europea di multare Apple e altri colossi della Silicon Valley. Bloomberg, in una sua analisi dedicata al “nervo scoperto nazionalista toccato dai guai di Deutsche Bank”, ha osservato che tali reazioni fanno parte di una forma di “vittimismo” e di una “narrativa popolare sempre più diffusa” in Germania, già vista all’opera sia contro il Ttip (l’accordo di libero scambio tra Ue e Stati Uniti) sia contro le politiche espansive della Banca centrale europea. Né l’unica lettura geopolitica dell’affaire Deutsche Bank è quella cripto anti americana: alla fine della scorsa settimana, quando il primo istituto di credito tedesco ha vacillato più vistosamente in Borsa, Yigit Bulut, consigliere del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, aveva ipotizzato che un fondo sovrano di Ankara o un pool di banche pubbliche del suo paese dovessero intervenire per salvare il gruppo domiciliato a Francoforte. Una boutade, probabilmente, che voleva suonare però come un affronto al paese leader dell’Ue.
Attori mediorientali in movimento se ne intravedono anche nel credito italiano. Infatti, mentre la banca d’affari JP Morgan è sospettata di favoritismi governativi sul dossier Monte dei Paschi di Siena e accusata perfino di essere l’autrice occulta della riforma costituzionale, si susseguono le voci di una sua alleanza con il Qatar per puntellare Mps. In questi giorni Corrado Passera – che anima una cordata alternativa di investitori finora usciti sconfitti dal confronto con JP Morgan su Mps – non manca di far notare ai suoi interlocutori le conseguenze geopolitiche di un ingresso della monarchia sunnita nel capitale della terza banca italiana. Anche se dalla Banca d’Italia non drammatizzano, puntando alla “stabilità” dei futuri investitori più che alla loro “nazionalità”, il dubbio di Passera non è peregrino.
Infine George Friedman, analista americano di geopolitica, segnala un nesso tra economia tedesca e crisi bancaria italiana. Questa volta però complottisti e anti merkeliani non saranno soddisfatti. Friedman infatti ricorda che la metà del pil di Berlino è frutto dell’export e che con tutti i loro appelli “alla disciplina e alla frugalità” i tedeschi “non potranno nascondere il fatto che la loro prosperità dipende dalla domanda dei loro consumatori”. Se il sistema bancario italiano finisse in ginocchio, trascinerebbe in basso pil e occupazione di tutta l’Eurozona: “La cancelliera Angela Merkel non avrà voglia di spiegare ai suoi concittadini che l’economia tedesca dipende dal benessere degli italiani”, ma “le imprese tedesche sono consapevoli del pericolo” che corrono. Geopoliticamente parlando, secondo Friedman, Berlino non tifa per il caos bancario in Italia.
Sovranismi all'angolo