La sede di Mps a Siena (Gilda via Flickr)

Ostaggi della banca

Stefano Cingolani
Ri-nazionalizzare le banche è la risposta al gelo dell’economia? Non è meglio sviluppare la finanza per le aziende? Alle banche italiane non serve più stato, serve più mercato. Esempi concreti.

Roma. Magari ci fosse ancora lo stato banchiere. Ah, se il governo fosse intervenuto come hanno fatto gli americani, i britannici, i tedeschi, gli olandesi, i francesi, insomma tutti quanti tranne gli italiani convinti che le loro banche fossero un’eccezione virtuosa. Non parliamo poi di una politica industriale (cioè garanzie pubbliche) per accompagnare la ristrutturazione di un settore che (lo si scopre solo adesso?) deve reinventare il proprio modello economico. Il coro sale, si estende, diventa senso comune. Eppure, i guai del sistema creditizio italiano non stanno nella debole presenza dello stato o nel suo scarso attivismo, bensì nella mancanza del mercato, cominciando dalle famiglie e dalle imprese alle quali le banche dovrebbero rendere un servizio secondo un business model magari un po’ anzianotto, ma sempre valido fino a prova contraria.

 

Il credito all’economia reale è passato da 830 a 795 miliardi di euro tra settembre 2014 e dicembre 2015, nonostante la Banca centrale europea abbia immesso 115 miliardi nel sistema. Quest’anno le cose non sono migliorate di molto perché, nonostante la ripresina, a luglio il credito era a quota 787 miliardi. Eppure, nonostante la crisi, gli italiani hanno continuato a risparmiare e negli ultimi due anni sono cresciuti i depositi liquidi nelle banche sui quali i clienti non guadagnano nulla. Dunque, il denaro non manca, ma viene trattenuto nei caveau: atteggiamento cautelativo, per paura di un’economia che stenta, della congiuntura internazionale instabile, di correre il rischio di prosciugare i bancomat come nel settembre 2008 e nel novembre 2011. Mentre le autorità di vigilanza, europee e internazionali, chiedono di aumentare il capitale.

 

Si dice: è colpa dell’eccesso di crediti deteriorati, prestiti che non saranno mai restituiti al loro valore originario. Dunque bisogna liberare le banche dai non performing loans. Giusto, ma come e soprattutto a chi venderli? Non esiste in Italia un vero mercato, anche per questo siamo nelle mani delle banche e dei fondi stranieri. Non solo. Il contrasto tra il fondo pubblico-privato Atlante che si prende i prestiti marci del Monte dei Paschi di Siena al 33 per cento del loro valore originario e la banca d’affari americana JP Morgan che li sconterebbe anche al 17 per cento, dimostra che a fare i prezzi non è il libero incontro di domanda e offerta. Piuttosto siamo di fronte a un mercanteggiamento para-politico, se non proprio a una sorta di regime di “prezzi amministrati”.

 

Ma il dilemma creditizio non sta solo in questo balletto. Le banche e (soprattutto) le assicurazioni disposte a impiegare il risparmio raccolto tendono a investirlo all’estero. Una fuga dei capitali? Una sfiducia nell’Italia? Un No al referendum?
Calma, il fatto è che non esistono opportunità d’investimento sul mercato domestico tali da remunerare abbastanza la clientela. Dal mondo delle assicurazioni sono finiti in questi soggetti esteri, soprattutto inglesi, francesi e tedeschi, ben sette miliardi di euro rispetto ai 122 milioni appena impiegati in Italia. Quattrini serviti ad alimentare grandi fusioni e acquisizioni, anche di imprese italiane (da Italcementi a Loro Piana).

 

Cosa sono i fondi di credito? Sono strumenti che forniscono prestiti alle imprese non finanziate dalle banche e troppo piccole per emettere obbligazioni sul mercato. Dunque, in teoria quasi tutte le imprese italiane le quali, invece, non trovano abbastanza soggetti ai quali rivolgersi. In Europa gli operatori di questo tipo hanno raccolto quasi 30 miliardi di euro soltanto lo scorso anno. In Italia si sono fermati a un miliardo. Del resto, l’intero mondo dei fondi di investimento è rimasto chiuso nei recinti delle banche.

 

Unicredit in piena ristrutturazione vende Pioneer, acquistato nel 2000, con un patrimonio gestito pari a 220 miliardi di euro. A chi? Alla Banca delle Poste, cioè indirettamente allo stato? Tanti saluti all’ampliamento di un mercato finanziario privato ed extra-bancario. Le Poste a loro volta si sono alleate con Anima (principali azionisti il Monte dei Paschi e la Banca Popolare di Milano), ma sono alla ricerca di spalle più forti perché si sono fatti avanti pretendenti robusti come il francese Amundi (maneggia circa mille miliardi di euro ed è collegato al Crédit Agricole che possiede in Italia la Cariparma), pronto a offrire quattro miliardi di euro. Comunque vada, una fetta importante del risparmio non uscirà dal tradizionale perimetro.
Mentre il sistema bancocentrico italiano sta entrando in una grande ristrutturazione che, come dicono ormai tutti a cominciare dalla Banca d’Italia, porterà a una drastica riduzione delle banche, dei bancari e (forse) anche dei banchieri tradizionali, stanno sbocciando nuove realtà specializzate, piccole, agili, ad alta penetrazione web. Anche i fondi che offrono credito alle imprese muovono i primi passi.

 

Gli ultimi tre governi hanno modificato il quadro normativo per favorire la nascita di nuovi operatori non bancari, arricchire il misero mercato finanziario italiano, e indirizzare il risparmio verso le imprese più promettenti. Tra le pieghe del Documento di economia e finanza c’è una sollecitazione in tal senso: si avanza l’idea di “un significativo incentivo fiscale finalizzato a canalizzare il risparmio delle famiglie verso gli investimenti produttivi in modo stabile e duraturo, facilitando la crescita del sistema imprenditoriale italiano”.

 

Tuttavia i semi gettati per creare un’industria finanziaria forte e diversa da quella bancaria non sono sufficienti. Con ben altro piglio si sono mossi all’estero: a Londra per esempio il Tesoro di Sua Maestà ha stanziato un miliardo e 250 milioni di sterline solo per far partire sei fondi di credito. La Francia non è da meno e il fondo Tikehau partito dieci anni fa con 289 milioni è arrivato a 7 miliardi.  

 

Secondo alcuni è mancata la moral suasion da parte del Tesoro e della Banca d’Italia. Altri rimandano alla ripresa troppo fiacca per aguzzare gli appetiti degli “spiriti animali”. Una terza spiegazione ci riporta alla questione centrale, cioè al peso ormai insopportabile dei crediti inesigibili. Una volta alleggerito in modo consistente, tutto torna come prima? Nient’affatto, è una condizione necessaria, ma non sufficiente. Del resto, anche il governo sa che non si può tornare indietro.
In Italia le piccole e medie imprese vengono finanziate per il 95 per cento dalle banche; in Germania per il 70 per cento dalle banche, in Francia e Spagna si scende al 60 per cento.

 

E’ lo specchio di queste microimprese italiane che non sono in grado di alimentarsi da sole? In parte è vero. E l’introduzione dei mini bond può dare una boccata d’ossigeno. Eppure non basta. In questi anni le imprese hanno perso buona parte del loro alimento finanziario, si pensi al trattamento di fine rapporto di lavoro, mentre i fondi pensione non sono mai decollati. E quando le banche sono state congelate dalla crisi, l’intera economia s’è pietrificata. Ri-nazionalizzare il credito è la risposta? Oppure non è meglio sviluppare un mercato finanziario complementare? Una scelta alla quale il governo non può sfuggire.

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