Pierre Moscovici (foto LaPresse)

Il populismo si vince con le risposte concrete, non invocando flessibilità

Veronica De Romanis
Moscovici lascia intendere che un’interpretazione più morbida delle regole fiscali europee, che consenta di finanziare maggiore spesa pubblica attraverso maggiore disavanzo rispetto agli obiettivi concordati, sia lo strumento giusto per contrastare l’avanzata delle forze antisistema.

"Siamo pronti a considerare le spese per i rifugiati e per il terremoto”, ha detto nei giorni scorsi il francese Pierre Moscovici, commissario agli Affari economici e sociali. Il motivo del probabile via libera a una dose di flessibilità anche per il 2017 l’ha spiegato lui stesso: “In Italia c’è una minaccia populista. Per questo sosteniamo gli sforzi del premier Renzi affinché sia un partner forte all’interno dell’Unione europea”. Nonostante il grande risalto che la notizia ha avuto sui giornali italiani (“l’Europa apre all’Italia sulla flessibilità”), in realtà Moscovici non ha detto nulla di nuovo. Lo scorporo dal calcolo del disavanzo delle spese sostenute in caso di circostanze eccezionali ed eventi imprevisti – come il sisma e l’emergenza immigrazione – è automatico perché previsto dai Trattati.  Nessuna concessione, quindi, ma, soprattutto, nessuna sorpresa, a dimostrazione che – come dice spesso il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi – “nelle regole c’è tutta la flessibilità necessaria”.

 

La parte interessante, invece, della dichiarazione del commissario europeo è quella sul legame tra flessibilità e populismo. Moscovici lascia intendere che un’interpretazione più morbida delle regole fiscali europee, che consenta di finanziare maggiore spesa pubblica attraverso maggiore disavanzo rispetto agli obiettivi concordati, sia lo strumento giusto per contrastare l’avanzata delle forze antisistema. Dall’analisi di ciò che sta avvenendo in Europa, però, si evince che la flessibilità non necessariamente rappresenta lo strumento più adatto per combattere il populismo. Nel lungo periodo, peraltro, potrebbe rivelarsi perfino una strategia controproducente. Ma andiamo per ordine. Partendo dalla relazione tra le politiche di austerità e l’ascesa dei movimenti populisti. E’ senz’altro vero che, nei paesi dove sono stati attuati aggiustamenti fiscali che hanno imposto pesanti sacrifici alla popolazione, il consenso intorno alle forze populiste è cresciuto. Del resto, non c’è da stupirsi.

 

Per uscire dalla crisi, queste forze propongono il ritorno a politiche fiscali espansive. Si tratta di una proposta facile da fare per i leader di questi movimenti. Innanzitutto, perché solo chi – come loro –non ha avuto ruoli di governo e, pertanto, non può essere considerato responsabile per l’austerità (la responsabilità è attribuita ai politici che si sono “sottomessi” alle cosiddette euroburocrazie) risulta credibile. E, poi, perché questi leader si limitano a dichiarare “cosa non fare”, senza spiegare “come fare”. Ad esempio, agli elettori non viene spiegato “come finanziare” la spesa pubblica quando un paese ha perso – o rischia di perdere – l’accesso ai mercati finanziari. Un caso emblematico è quello di Pablo Iglesias, leader del movimento spagnolo Podemos, che in campagna elettorale per le elezioni del 26 giugno 2016 ha promesso 100 miliardi di spesa pubblica entro il 2019. Iglesias non ha specificato “come” avrebbe finanziato questa misura. Eppure, il suo partito è stato il terzo più votato, segno che fornire risposte semplici, come lo “stop all’austerità”, a problemi complessi – come l’uscita dalla crisi finanziaria europea – funziona.

 

Ciò non significa, però, che la flessibilità possa essere necessariamente l’antidoto giusto al populismo. In diversi paesi dove sono prevalse politiche fiscali espansive, l’ascesa dei movimenti antisistema non si è interrotta, al contrario. Basti pensare al caso francese. La Francia non rispetta le regole fiscali europee da quasi un decennio: il disavanzo pubblico supera il limite del 3 per cento dal 2009 e per questo il paese è sotto procedura di disavanzo eccessivo. Pertanto, dovrebbe seguire una tabella di marcia – concordata con l’Europa – che definisce l’entità e, soprattutto, i tempi dell’aggiustamento per ritornare su un percorso fiscale sostenibile. Tabella che, però, ogni anno è puntualmente disattesa.

 

E, nonostante ciò, al governo di Parigi, invece dell’imposizione delle sanzioni (come previsto dal Patto di stabilità e crescita), viene regolarmente concesso tempo aggiuntivo. E, così, il disavanzo non scende come stabilito e la spesa pubblica continua a crescere. Negli ultimi dieci anni è aumentata di oltre 4 punti, raggiungendo nel 2015 il 56,8 per cento del pil, il livello più elevato della zona euro e dell’Unione europea nel suo complesso. Insomma, di austerità in Francia non c’è traccia. Eppure, il Front national di Marine Le Pen, continua a raccogliere consensi. Lo stesso fenomeno avviene in Italia. Nella primavera scorsa, la Commissione europea ha dato il via libera a circa 14 miliardi di euro (0,85 per cento del pil) di spese da finanziarie con disavanzo aggiuntivo rispetto all’obiettivo pattuito. E, tuttavia, la flessibilità di bilancio non ha evitato la vittoria del Movimento 5 stelle alle elezioni amministrative di giugno.

 

C’è, poi, un altro aspetto che dovrebbe far riflettere chi – almeno nel nostro paese – mette in relazione la flessibilità con la lotta al populismo. Maggiore flessibilità significa maggiore debito pubblico che dovrà essere ripagato dai giovani, la categoria della popolazione attualmente più penalizzata in Italia. I dati, a questo proposito, parlano chiaro. Nonostante il tasso di povertà tra i 18-34enni sia salito in un solo anno dall’8,1 per cento del 2014 al 9,9 per cento del 2015 – mentre quello degli over 65enni è meno della metà e in calo dal 4,5 per cento al 4,1 per cento – la percentuale delle spese per l’inclusione, la famiglia e l’abitazione si ferma all’8 per cento contro il 13 per cento della media europea e il 18 per cento della Francia. Quella per le pensioni, invece, continua ad aumentare, superando i due terzi del totale contro una media europea di poco meno della metà.

 

Pertanto, a fronte di una torta da redistribuire sempre più piccola (come ha giustamente ribadito di recente il ministro dell’Economia Padoan), le risorse andrebbero dirottate verso i giovani che non hanno un lavoro e non verso chi, come gli statali, un lavoro ce l’hanno oppure i pensionati che un lavoro l’hanno avuto. Si potrebbe cominciare sin da subito, ad esempio, inserendo nella legge di Stabilità misure come il potenziamento del sistema duale (i 100 milioni di euro stanziati per il triennio sono una miseria se paragonati ai due miliardi annuali della Germania) e l’avvio (vero) delle politiche attive del lavoro (la spesa italiana destinata a questo comparto è 10 volte inferiore a quella tedesca). Il populismo si combatte anche dando risposte concrete (e non slogan) a chi oggi ne ha più bisogno. Imboccare la strada della flessibilità per dare un po’ di soldi a tutti rischia di rivelarsi, invece, una scelta miope.