Gran difesa della globalizzazione dal francese Baverez
Roma. Se un intellettuale francese difende la globalizzazione, o meglio la mondialisation, fa subito notizia soprattutto in tempi di “pikettysmo” dominante. Se poi si dichiara liberale, l’interesse raddoppia. Quando, infine, lo stesso mondialista chiede di ripensare il paradigma del laissez-faire, allora c’è davvero da accendere una spia rossa. L’intellò in questione è Nicolas Baverez, 55 anni, avvocato, ex grand commis, saggista, editorialista, scrittore – il diciannovesimo libro è uscito in primavera, si intitola “Danzare su un vulcano” ed è dedicato alle eruzioni geopolitiche di questi tempi malmostosi.
Nella sua colonna settimanale sul Point intitolata “Guerra e pace economica tra le nazioni” Baverez invita a mettere la globalizzazione al servizio del maggior numero di persone, invece di sfasciarla. Baverez non lo cita, ma il suo appello assomiglia a quello già lanciato da Larry Summers: “La rivolta contro l’integrazione globale è in atto”, ha scritto sul Financial Times, per reagire bisogna “mettere in moto un processo che salga dal basso in alto, non viceversa”. L’economista di Harvard già segretario al Tesoro degli Stati Uniti nel secondo mandato di Bill Clinton, ha contribuito direttamente alla liberalizzazione degli scambi di merci, uomini e capitali, cioè a quel cammino che in un quarto di secolo ha tolto un miliardo di persone dallo stato di povertà estrema e ha più che raddoppiato il reddito medio della popolazione.
Certo, la statistica è trilussiana, ma il paradosso dei nostri tempi è proprio questo: come mai un processo di produzione e diffusione della prosperità senza precedenti, diventa un capro espiatorio universale. La spiegazione di Thomas Piketty e dei suoi seguaci è di natura distributiva: la ricchezza è stata accumulata e non spesa, non investita, non consumata, insomma non è scesa fino alla base della piramide sociale. Il Fondo monetario internazionale con una serie di studi sul campo sostiene che, in realtà, si tratta di un impoverimento relativo di ceti sociali che non hanno tenuto il passo con i grandi cambiamenti tecnologici. Dunque, è un fenomeno che riguarda soprattutto l’occidente. La causa non sta nel commercio mondiale, ma nella mancanza di una istruzione permanente, adeguata ai mutamenti in atto.
I neoprotezionisti se la prendono con il divario salariale: con un ricorso al “Capitale” di Karl Marx (che diventa paradossale per uno come Donald Trump) sostengono che l’immensa manodopera di riserva cinese, asiatica, sudamericana ha fatto concorrenza sleale alla classe operaia europea e americana. Una gigantesca idrovora ha risucchiato posti di lavoro, trasformando in lande desolate le terre dove è fiorita l’industria del Novecento.
La globalizzazione batte in ritirata. Un po’ ovunque s’innalzano le barriere. I commerci mondiali dal 1990 erano cresciuti a un ritmo doppio rispetto al pil, oggi avviene l’opposto, creando un circolo vizioso che spiega in gran parte la tendenza a una “stagnazione secolare” (come la chiama Summers). C’è anche chi dissente e sottolinea che siamo ancora sotto l’influsso di una grande crisi che ha generato una lunga recessione. Ma se guardiamo ai dati nudi e crudi, vediamo che “la crescita globale è solida”: lo ha scritto Gavyn Davies sul Financial Times, pubblicando una serie di grafici eloquenti.
Tuttavia, più che le cifre contano le percezioni e le aspettative. Ovunque si chiede allo stato un maggiore intervento diretto nell’economia. Lo fanno adesso anche i conservatori neoisolazionisti di Theresa May “con una politica economica che guarda a sinistra e una politica sociale che va a destra” (Economist). Figuriamoci socialisti o laburisti alla Corbyn.
Ma cosa significa “partire dal basso” o dare una “dimensione inclusiva allo sviluppo”? Né Summers né Baverez pensano a misure protezionistiche. Anzi, il saggista francese rivolge una sorta di appello agli occidentali affinché comprendano che la crescita del Terzo mondo è per loro una grande occasione. Tuttavia, occorre “ridurre non solo lo scarto tra le nazioni, ma tra gli individui all’interno delle nazioni”. Il commercio mondiale resta “una fonte maggiore di ricchezza per le nazioni, i popoli e gli individui”. Questa ricchezza, però, “deve essere ripartita in modo equo e messa al servizio della stabilità e della libertà”.
Qui Baverez potrebbe trovare il punto d’incontro con Piketty per una sosta di “alleanza del progresso”. Ben 25 anni fa quando il mondo sembrava piatto (Tom Friedman), Alain Minc un intellettuale francese di chiara fama, ben noto anche in Italia pubblicò un libro dal titolo provocatorio: “La globalizzazione felice”. Oggi forse bisognerebbe scrivere “la globalizzazione equa”. Vaste programme.