Perché l'America non riuscirebbe a sopravvivere a una nuova Lehman
New York, dal nostro inviato. L’Europa è ripiegata sulle sue banche che non riescono a lasciarsi alle spalle la crisi, oltre che fiaccata da una rete di sicurezza incompleta per i suoi istituti di credito (come l’Unione bancaria) e addirittura temuta dagli stessi operatori (come nel caso del regime di bail-in, cioè il salvataggio con i soldi di azionisti, obbligazionisti e grandi correntisti). E’ comprensibile perciò che il nostro continente dedichi poca o nessuna attenzione ai cambiamenti istituzionali profondi che stanno interessando lo stesso settore del credito sull’altra sponda dell’Atlantico. Tuttavia, secondo alcuni osservatori, gli Stati Uniti – a dispetto della loro ripresa economica più vibrante – da qualche anno vedono indebolirsi la propria capacità di reagire a una prossima eventuale crisi finanziaria e bancaria.
Si tratta di un’evoluzione di non poco conto, carica di insegnamenti per Bruxelles e Francoforte. I due candidati alle elezioni presidenziali del prossimo 8 novembre ci stanno mettendo del loro nel compromettere la resilienza americana. Secondo un sondaggio effettuato dal Wall Street Journal tra decine di economisti, la campagna elettorale in corso sta minando l’indipendenza della Banca centrale, quella Federal reserve che da più parti è stata lodata per la rapidità d’intervento dimostrata all’indomani del crac di Lehman Brothers nel 2008. Nonostante la quasi totalità degli economisti interpellati dal quotidiano finanziario americano riconosca che una Banca centrale indipendente è più efficace di una Banca centrale controllata direttamente dal governo, il 69,2 per cento tra loro è costretto a osservare che certi attacchi retorici alla Fed possono minare tale indipendenza, mentre il 70,6 per cento tra loro riconosce che donazioni ai partiti politici da parte degli esponenti della Fed hanno un identico effetto negativo. I due scenari contemplati dagli economisti sono tutt’altro che teorici, scrive il Wall Street Journal. Da una parte il candidato repubblicano alla Casa Bianca, Donald Trump, ha accusato l’attuale governatrice della Fed, Janet Yellen, di tenere i tassi a zero per facilitare la campagna dei democratici e senza curarsi degli effetti di un’espansione monetaria troppo duratura. Dall’altra parte è stata molto criticata la scelta di Lael Brainard, uno dei membri della Fed, di compiere una donazione a favore della Clinton; la Yellen ha difeso in punto di diritto l’operato della Brainard, ma la maggioranza degli analisti ha parlato di una caduta di stile senza precedenti che mette in cattiva luce la Banca centrale.
Né i toni sopra le righe di questi mesi sono il fardello più pesante che gli Stati Uniti si ritroveranno sulle spalle allo scoppiare di un’ipotetica nuova crisi finanziaria. Secondo Timothy Geithner – governatore della Fed di New York negli anni in cui Wall Street pareva destinata a volare e poi a collassare (2003-2009), quindi segretario del Tesoro nell’Amministrazione Obama (2009-2013) –, tutta la classe politica da anni ha iniziato a legarsi da sola le mani, riducendosi quasi all’impotenza nell’eventualità di nuovi scossoni finanziari. Paradossalmente, ha notato Geithner in una recente conferenza tenuta al cospetto di esponenti del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, oggi il governo di Washington e la Fed non sarebbero in condizioni di ripetere la grande operazione di salvataggio della finanza a stelle e strisce che nemmeno dieci anni fa evitò una riedizione della Grande depressione degli anni 30. L’ex ministro del Tesoro di Obama sostiene che “i limiti ai poteri emergenziali delle autorità americane emersi dopo la crisi sono il riflesso di un tragico ciclo naturale che sempre s’innesta tra interventi post crisi e reazione politica. Il ciclo funziona grosso modo così: la crisi inizia e i policy maker di primo acchito sono lenti a reagire. Presto la crisi si aggrava e l’arsenale di misure a disposizione non basta più. I parlamenti a questo punto concedono maggiori poteri per utilizzare le risorse fiscali; i policy maker utilizzano tali poteri per quelli che la gente chiama in maniera spregiativa ‘bail-out’ (salvataggi con i soldi pubblici, ndr). I beneficiari diretti dei bail-out sono soggetti solitamente dotati di scarso appeal, perciò tali salvataggi diventano impopolari e si fa difficile comprendere che essi sono comunque migliori di tutte le altre alternative”. Se a ciò si aggiunge che la spinta dei bail-out ai prezzi degli asset e alla fiducia diffusa non è immediata, si comprende che “la rabbia dell’opinione pubblica cresce mentre l’economia non sembra migliorare. I politici e/o l’opinione pubblica danno la colpa ai policy maker, perciò li privano della loro discrezionalità, e promettono: ‘Mai più’. Dopodiché il ciclo si ripete”, ricominciando daccapo con la successiva crisi.
Timothy Geithner (foto LaPresse)
Oggi, certo, il sistema bancario e quello finanziario americani sono più capitalizzati e meno spregiudicati rispetto al 2007, sostiene Geithner, e il rischio sistemico è tenuto in debito conto dal regolatore. Tuttavia il “ciclo naturale” di cui sopra ha fatto sì che il kit anti crisi delle autorità sia stato progressivamente svuotato. A essere sguarnito è innanzitutto “l’arsenale keynesiano”: il debito americano a livelli record, i tassi di riferimento della Banca centrale già azzerati e i rendimenti sui titoli sovrani piatti anche nel lungo termine fanno sì che “l’unica frontiera rimasta” per un possibile sostegno con i soldi dei contribuenti sarebbe quella di uno stimolo fiscale e uno stimolo monetario coordinati a livello mondiale. Più facile a dirsi che a farsi.
Come se ciò non bastasse a rendere complicato contrastare la crisi che prima o poi busserà alla porta, l’ex numero uno del Tesoro obamiano rileva che anche “l’arsenale di Bagehot” si è progressivamente svuotato. La Fed, per esempio, non può più prestare a singoli soggetti finanziari che non siano banche, ma tutt’al più a intere categorie di soggetti; si tratta di un limite concepito dal Congresso per impedire alla Banca centrale di ricorrere agilmente a programmi come quelli che facilitarono l’acquisizione di Bear Stearns da parte di JP Morgan o di prevenire il fallimento del colosso assicurativo Aig. Inoltre nuovi vincoli di trasparenza impongono alla Fed di rendere noto allo stesso Congresso, entro 7 giorni dall’eventuale decisione, un qualsiasi prestito a soggetti finanziari individuali; ma ciò aumenta automaticamente lo stigma verso i destinatari di aiuti e dunque rende meno percorribile anche questa strada.
Un altro caso di “autocastrazione”, secondo Geithner, riguarda la Federal deposit insurance corporation (Fdic), l’autorità indipendente che garantisce i depositanti e sorveglia sulla solvibilità degli istituti di credito. La Fdic può anticipare liquidità alle banche a fronte di collaterale dato in garanzia; quando tra il 2007 e il 2008 il rischio di fallimento aumentò a dismisura e l’haircut praticato sul collaterale divenne maggiore, la fuga dai mercati finanziari si aggravò; il fatto che allora la Fdic poté esercitare la sua discrezionalità e ridurre l’haircut continuando a irrorare gli istituti – fino a un’esposizione che al suo culmine fu pari a 480 miliardi di dollari – fu “fondamentale per aiutare ad attirare capitali privati freschi nel sistema finanziario americano”, facendo sì che l’intervento pubblico fosse meno dispendioso delle attese. Oggi però il Congresso ha diminuito la discrezionalità “assicurativa” della Fdic.
Sempre il Congresso ha imposto paletti alla possibilità del Tesoro di utilizzare l’Exchange Stabilization Fund per fornire centinaia di miliardi di dollari in garanzie ai fondi monetari, come accadde invece nell’autunno del 2008. E allo stesso tempo è scaduto anche il potere d’emergenza che il Tesoro aveva di fornire capitale al sistema finanziario e comprare altri asset, assumendo su di sé pure il rischio di credito connesso e sgravando la Fed come accadde con il programma Talf (Term Asset-Backed Securities Loan Facility) del 2009.
A completare il quadro giudicato allarmante da Geithner ci sono le nuove regole che sovrintendono alla “risoluzione” (leggi: fallimento ordinato) degli istituti finanziari in crisi. Qui l’ex banchiere centrale critica la nuova disposizione in voga del bail-in, cioè la procedura che obbliga a intaccare gli investitori privati prima di attingere alle risorse pubbliche. Tale meccanismo, che sta creando scompensi anche in Europa (e ovviamente in Italia, come dimostra il caso Monte dei Paschi di Siena dopo quello delle quattro banche regionali con cui il governo Renzi si è scottato), secondo Geithner è “promettente” se applicato a “choc idiosincratici”, vale a dire di singoli istituti, ma pericoloso se utilizzato a fronte di “choc sistemici”. Ecco spiegato il perché: “Se oggi, come condizione sine qua non per consentire una risoluzione ordinata o nuove iniezioni di capitale in una banca, viene richiesto di imporre perdite a un’ampia gamma di creditori (non correntisti), allora si rischia di ingenerare la fuga degli investitori da un numero più ampio di banche, perché questi razionalmente agiranno per tutelarsi di fronte all’eventualità di vedersi infliggere haircut anche per le partecipazioni in altri istituti relativamente deboli”.
Insomma, chiede Geithner ai suoi colleghi statunitensi, “oggi siamo forse più al sicuro nell’eventualità che si dovesse palesare un nuovo choc finanziario?”. La risposta è sorprendentemente negativa: “Un prestatore di ultima istanza più limitato, nessun potere rimasto per fornire garanzie o più capitale agli istituti, e uno schema di risoluzione architettato per prevenire l’utilizzo di risorse pubbliche e imporre perdite agli attuali creditori: questa è una combinazione pericolosa. (…) Tale insieme di limitazioni minaccia di renderci meno capaci di fronteggiare future crisi di quanto invece non lo fossimo nel 2007”.