“La stagnazione secolare sottovaluta mercato e incentivi”. Parla Zweig
New York, dal nostro inviato. Jason Zweig ci riceve al settimo piano degli uffici del gruppo News Corp presieduto da Rupert Murdoch. Sulla facciata del grattacielo di Manhattan scorrono i titoli della rete televisiva Fox News sulla campagna per la Casa Bianca ma l’esperto di finanza, ora editorialista del Wall Street Journal, si tiene alla larga dalla politica durante la conversazione con il Foglio. Schiva le elezioni presidenziali dell’8 novembre, mentre è affascinato dalle diverse modalità con cui la mano visibile dello stato interviene sui mercati. A Zweig, autore di un “Dizionario finanziario del diavolo” (PublicAffairs) che fa il verso al classico “Dizionario del diavolo” scritto da Ambrose Bierce nel 1906, chiediamo di valutare l’allarme lanciato da alcuni analisti, tra cui l’ex segretario al Tesoro Timothy Geithner, secondo cui gli Stati Uniti oggi non sarebbero più in grado di replicare con tempestività un salvataggio di Wall Street come quello del 2008. La politica, a causa dell’impopolarità dei bail-out e altre misure non convenzionali messe in campo dopo il crollo di Lehman Brothers, avrebbe smantellato l’arsenale di poteri d’emergenza del Tesoro, della Federal reserve e altre autorità.
“Questo tipo di analisi è ciò che più mi amareggia dell’eredità della crisi finanziaria – replica Zweig, autore tutte le settimane della rubrica “The Intelligent Investor” sulle colonne del Wall Street Journal – Infatti ci perdiamo ancora nei dettagli delle singole misure o dei singoli poteri delle singole autorità. E’ andata così anche nel Dodd-Frank Act, approvato nel 2010 per cambiare la regolamentazione della finanza. In questo modo però si continua ad alimentare l’arbitrarietà vista all’opera nel pieno della crisi: allora, nell’arco di qualche mese, Bear Stearns fu lasciata fallire e poi venduta a JP Morgan, Lehman Brothers fu lasciata fallire e basta, Merrill-Lynch fu salvata da Bank of America e via dicendo. Capisco che è più facile a dirsi che a farsi, ma buone politiche si fondano su princìpi chiari. Avremmo tutti beneficiato di una discussione approfondita sui princìpi, su cosa voglia dire ‘fallimento’ o ‘troppo grande per fallire’, su quando un salvataggio sia ammissibile, eccetera. In questo modo anche l’opinione pubblica sarebbe più a suo agio”.
Il columnist del quotidiano conservatore, sul punto, rivaluta addirittura la legislazione post Grande depressione di Franklin Delano Roosevelt: “Era concisa, comprensibile e fondata su dei princìpi”. Se è vero che oggi invece “ci perdiamo nei dettagli”, Zweig appare comunque più ottimista di Geithner a proposito di quanto accadrebbe in una futura crisi finanziaria: “Le autorità avranno pure le mani più legate di qualche anno fa, ma d’altronde una crisi è il momento in cui tutti i nostri piani e i nostri progetti vengono sconvolti. Ciò che è scritto sulla carta, conta fino a un certo punto. Succede anche nelle nostre crisi personali nel corso della vita, o no? Quando rischiamo di perdere qualcuno che ci è caro, o vediamo la nostra salute messa a repentaglio, possiamo fare cose che non avremmo mai immaginato prima. Il punto è un altro: se durante le crisi è difficile pensare in maniera lucida, a maggior ragione sono necessari pochi e chiari princìpi di riferimento, anche al regolatore”.
In compenso la crisi iniziata nel 2008 potrebbe aver lasciato una cicatrice profonda sulla pelle del capitalismo occidentale, rendendoci insofferenti al rischio, non trova? “Il ‘rischio’ in questo campo è stato ben definito, dal punto di vista filosofico, da Elroy Dimson: secondo questo professore di Finanza della London Business School, ‘rischio’ vuol dire che più cose possono accadere di quante effettivamente ne accadranno – dice Zweig – In una certa fase storica si può essere più pessimisti, invece che ottimisti, sulle cose ‘in più’ che ‘possono accadere’. Al momento direi che negli Stati Uniti gli investitori finanziari stanno tentando di diminuire la loro esposizione al rischio generico, concentrando comunque una parte più piccola del loro capitale su asset molto rischiosi. Meno rischi, insomma, ma più grandi. Da ciò discende il fatto che per esempio, fino a pochi anni fa, i fondi pensione americani investivano nei titoli azionari circa il 60 per cento del loro portafoglio, mentre oggi quella quota è scesa al 30 per cento. Contemporaneamente, però, cresce la portata delle scommesse su hedge fund e venture capital: non a caso le valutazioni di mercato di alcune società della Silicon Valley sono pazzesche. Concentrando il rischio che assumiamo, ci sentiamo psicologicamente più sicuri, ma alla fine possiamo comunque perdere molto”.
E’ studiando simili evoluzioni che Zweig e colleghi hanno di recente avviato un reportage a puntate sulla “morte del business della scelta dei titoli azionari giusti”: da un paio d’anni, infatti, “l’investimento passivo” sta diventando sempre più diffuso. Esso consiste nella scelta di far fluire miliardi di dollari in fondi che semplicemente seguono l’andamento medio di alcuni indici azionari, come se fossero guidati da un pilota automatico. Si spende meno in commissioni e si ha la sensazione di una minore aleatorietà. “Tuttavia non si azzera il rischio – ragiona Zweig – Cambia soltanto il modo di affrontarlo”. Tentiamo allora di esaminare questa ipotetica allergia al rischio da un altro punto di vista. Dopo anni in cui si era detto che era soprattutto la finanza a giovarsi delle politiche espansive non convenzionali delle Banche centrali, oggi dalle assicurazioni e dalle banche arrivano appelli a una “normalizzazione” dei tassi, mentre sono soprattutto i banchieri centrali e i governi a temere gli effetti di una stretta monetaria: “Ci si muove tra scuole di pensiero troppo estremiste – dice l’analista – Da una parte quelli che sono sempre stati scettici sulle politiche monetarie espansive, i quali ritengono che ormai i banchieri centrali sono in trappola. Dall’altra parte i banchieri centrali stessi che ci assicurano di sapere perfettamente cosa accadrà nel prossimo futuro”. Ai primi, i pessimisti, Zweig consiglia di tenere a mente “la più potente legge della fisica finanziaria: la regressione verso la media”. Si tratta della “tendenza dei risultati superiori alla media a essere seguiti da risultati sotto la media, e della tendenza degli eventi particolarmente negativi a essere seguiti da quelli estremamente positivi”. “E’ difficile predire esattamente quando, o di quanto, gli eventi regrediranno verso la media – scrive Zweig nel suo ‘Dizionario finanziario del diavolo’ – Ma prima o poi, in ogni campo dove la fortuna gioca un ruolo, succederà. L’inevitabilità della regressione verso la media è negata dai capi azienda, dagli analisti e dagli investitori – che diventano euforici quando sono al top (cioè nel momento in cui dovrebbero diventare più prudenti, anticipando il declino) e pessimisti quando toccano il fondo (mentre dovrebbero essere più aggressivi nell’attesa della ripresa)”.
Per esempio, “quando siamo vicino al fondo, le società tagliano alcune loro attività che non garantiscono utili immediati, gli analisti ritengono che il business continuerà a inaridirsi, gli investitori concludono che l’Apocalisse ci sta per sorprendere. A quel punto la massa scommette che altri eventi estremi continueranno a manifestarsi con modalità ancora più estreme, piuttosto che muovere nella direzione opposta. Ignorando la legge della regressione verso la media, la massa finisce per rendere più gravi gli effetti della recessione”. Il commentatore del Wall Street Journal ha un consiglio anche per i super ottimisti che sentono di avere in pugno gli “spiriti animali” grazie ai nuovi strumenti di politica monetaria: “Ricordino che le Banche centrali sono potenti, ma non come i mercati. Se in un certo momento gli attori del mercato riterranno di avere un bisogno vitale di una curva dei rendimenti dei titoli di stato più ripida, cioè dove aumenta di molto – diversamente da oggi – la differenza tra tassi a lunga scadenza e tassi a breve scadenza, ecco che quegli attori potranno crearsi da sé tale curva, iniziando a vendere titoli di stato a lunga scadenza e continuando a farlo finché necessario. Negli Stati Uniti, negli scorsi mesi, abbiamo avuto qualche segnale di questo scenario”. E in questo caso non c’è diga monetaria che tenga. Nemmeno i governi e le Banche centrali, dunque, possono schermarsi totalmente dal rischio, ammesso che sia nel loro interesse.
Zweig insomma non ritiene che gli occidentali siano diventati totalmente avversi al rischio. Gli sottoponiamo perciò le riflessioni dei teorici della “stagnazione secolare”. Per loro, i risparmi del pianeta eccedono oramai il desiderio d’investimento dei privati. L’America, in quest’ottica, appare destinata a seguire in un prossimo futuro la strada della crescita anemica già imboccata dall’Europa. “La stagnazione secolare appartiene al filone delle ‘grand theories’, delle ampie speculazioni teoriche. Nel solo corso della mia vita ne ho lette e ascoltate tante – dice Zweig – con annessi annunci di ‘nuove ere’ che sarebbero dovute iniziare da un momento all’altro. Non si tratta di essere cinici. Sarebbe sufficiente essere umili nell’approcciarsi a tali teorie, riconoscendo che funzionano se utilizzate per spiegare alcuni aspetti della realtà. Se invece la stagnazione secolare diventa una sorta di nuova fede, allora i suoi adepti si convinceranno di poter spiegare attraverso di essa il presente e il futuro di miliardi di persone che interagiscono tra loro”.
Esistono invece vari indizi, a detta di Zweig, per ritenere che la stagnazione secolare non possa assurgere a nuovo credo che tutto spiega: “Perché, per esempio, l’Europa destinata alla stagnazione secolare non è la fonte di una fuga di massa dai suoi territori, ma addirittura la destinazione di milioni di immigrati? E poi, se l’ipotesi della stagnazione secolare fosse veritiera in ogni sua parte, come si spiega il fatto che nessuno agisce di conseguenza, anche solo per trarne profitto? Dirò di più: se tale teoria fosse sul punto di realizzarsi nel mondo reale e se tutti gli operatori di mercato ne fossero convinti, quasi ogni asset non potrebbe che perdere valore in vista del realizzarsi di quello scenario negativo: a quel punto altre persone, altri capitali, sarebbero incentivati a intervenire per cogliere le buone occasioni, ed ecco che si metterebbe in moto un meccanismo auto correttivo del mercato”.
Conclusione: “Sono un cinico – dice Zweig – ma anche un ottimista. Lo sono perché il progresso economico nel mondo è stato la vera storia degli ultimi tre o quattro secoli. E’ come se le persone fossero nate per trovare soluzioni ai problemi che gli si parano davanti. Negli Stati Uniti, trovare soluzioni alla bassa crescita potrà essere più complicato rispetto a qualche decennio fa, potrà richiedere più tempo, ma alla fine accadrà”.