(immagine di Frans de Wilde via Flickr)

Facciamoci furbi, il turismo non cresce facendo guerra a Booking e Airbnb

Luciano Capone
Agli alberghi servono meno tasse, non meno concorrenza. Perché bloccare l’apporto e le opportunità offerte dalle nuove tecnologie è una scelta di corto respiro.

Roma. Il 2016 è stato un’ottima annata per il turismo, con un incremento delle presenze a doppia cifra. Il settore cresce più di altri e dell’economia italiana nel suo complesso, ma molto è dipeso da eventi come l’Expo e da fattori esterni, come il rischio terrorismo in Nord Africa e Francia e l’instabilità politica in Turchia. Molti italiani hanno trascorso le vacanze in patria e tanti stranieri hanno preferito destinazioni più sicure come il nostro paese. L’Italia, per le sue bellezze storiche e naturali, è una delle mete preferite, ma potrebbe fare di più sia per il numero di arrivi (siamo al quinto posto dietro a Francia e Spagna) e soprattutto per introiti (siamo al settimo posto, in discesa di posizioni). Per un paese che “potrebbe vivere di turismo”, come si suol dire, restano quindi diversi problemi strutturali che consistono in un miglioramento dell’offerta, possibilità di fare investimenti e capacità di intercettare il crescente flusso di turisti internazionali.

 

Purtroppo pare che, anziché pretendere dal governo e dagli enti locali meno intervento e burocrazia, riduzione della pressione fiscale a partire dalle tasse sui turisti, il settore sia portato a chiedere protezione. Un caso è la recente battaglia contro Airbnb, la piattaforma che permette ai proprietari di casa di affittare per brevi periodi il proprio appartamento o una parte, considerata da Federalberghi come il regno dell’abusivismo e dell’illegalità. Questa visione è stata accolta dalla regione Toscana all’interno di una legge nata per regolare i grandi proprietari, ma che finisce per colpire anche i singoli proprietari che in questi anni di crisi hanno messo l’unica casa a reddito fittandola ai turisti. Grazie alla proprietà diffusa di immobili, l’Italia è diventata per Airbnb il terzo mercato mondiale, registrando 3,6 milioni di turisti nelle case di circa 80 mila host, nella stragrande maggioranza con un reddito medio-basso, che hanno guadagnato 2.300 euro l’anno.

 

Sicuramente c’è bisogno di regole per definire degli standard minimi e gli alberghi non possono essere penalizzati da imposizioni eccessive, ma bloccare l’apporto e le opportunità offerte dalle nuove tecnologie è una scelta di corto respiro. Allo stesso modo può essere inquadrata la lotta degli albergatori vinta contro le grandi agenzie online, tipo Expedia e Booking, con l’inserimento nella legge sulla concorrenza dell’eliminazione del “parity rate”, la clausola che impegna gli alberghi a non praticare prezzi inferiori a quelli concordati sui portali degli intermediari.

 

Gli imprenditori descrivono la possibilità di stipulare questi contratti come una violazione della concorrenza, in quanto si impedirebbe di fare prezzi più bassi ai consumatori. In realtà l’abolizione di questa norma si trasformerebbe nell’impossibilità di impedire il “free riding”: gli alberghi attirano i clienti grazie alle vetrine dei grandi motori di ricerca e contemporaneamente offrono prezzi più bassi sul proprio sito evitando di pagare le commissioni per il servizio. Poco male, si dirà, se non guadagna una multinazionale e il consumatore risparmia. Il problema è che queste agenzie permettono di intercettare il turismo internazionale: promuovono le strutture alberghiere sui motori di ricerca di tutto il mondo e in più lingue, offrono servizi senza i quali difficilmente le piccole strutture riuscirebbero ad attirare turisti stranieri.  

 

Tra l’altro, dopo un accordo con le autorità antitrust di Italia, Francia e Svezia grandi piattaforma come Booking hanno di fatto ridotto al minimo il parity rate. Attualmente gli alberghi non sono più tenuti a rispettare la clausola della parità di prezzo con le altre agenzie online e neppure su tutti i canali off line, ma solo sul proprio sito. In pratica gli alberghi non possono fare prezzi più bassi a portata di clic sul proprio sito, ma possono farlo telefonicamente, per email o per qualsiasi altro canale.

 

Viste queste possibilità, Federalberghi ha già da tempo lanciato la campagna “Fatti furbo!”, che invita i clienti a contattare direttamente l’hotel per avere prezzi più bassi rispetto alle prenotazioni sui siti di Booking e Expedia. L’iniziativa da un lato dimostra che la concorrenza e la possibilità di offrire prezzi più bassi esistono e quindi non c’è la necessità di abolire totalmente il parity rate, dall’altro che l’obiettivo è il free riding. Ma visto che nessuno lavora gratis, una volta che non faranno più profitti, i portali sposteranno gli investimenti. E a furia di fare i furbi, il rischio è di perdere una vetrina e tutti i turisti mondiali che la guardano.

 


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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali