Il patto della fabbrica è un problema per Camusso
Roma. Da almeno trent’anni non si parlava più di fabbrica in Italia. Come ha ricordato nel suo blog il direttore della Fondazione Pirelli, Antonio Calabrò, la parola fabbrica era uscita dal discorso pubblico, ripudiata addirittura dalle nuove generazioni che, misurate nel 2008 dall’Ipsos di Nando Pagnoncelli per il libro Orgoglio industriale (Mondadori) e poi per un’indagine di Assolombarda nel 2010, insistevano nel preferire incredibilmente “al lavoro in fabbrica un impiego anche precario in un call center” o “da commessa in una boutique di moda”. La débâcle culturale del luogo simbolo della produzione e della manifattura, che per l’Italia aveva significato la costruzione di una identità culturale forte intorno alle idee innovative di Cattaneo prima, Olivetti e Pirelli dopo, si sarebbe materializzata negli anni a venire con lo stop imposto dalla magistratura allo stabilimento siderurgico dell’Ilva di Taranto e la vendita ai cinesi di ChemChina di una delle fabbriche simbolo dell’industria italiana (emblematico lo smantellamento industriale e psicologico dell’acciaieria Ilva di Bagnoli, raccontato ne “La dismissione” di Ermanno Rea).
La svolta, almeno a parole, invece adesso c’è stata. La proposta del presidente di Confindustria Boccia di un “patto della fabbrica” avanzata a governo e sindacati dal palco del convegno dei “Giovani imprenditori” di Capri, può davvero aprire una nuova stagione culturale. Il rilancio della fabbrica, sull’onda del recupero della centralità dell’economia reale dopo gli anni delle speculazioni finanziarie facili, va letto in modo positivo, perché può costituire una fase di cambiamento culturale, preludio di una nuova stagione di sviluppo e di riposizionamento del concetto stesso di azienda (e di fabbrica). Se negli ultimi quindici anni l’anticultura ha prevalso anche per colpa degli imprenditori, poco abili nel comunicare e interpretare il cambiamento nelle relazioni con i territori – si veda il Rapporto del Nimby Forum e il recente referendum No Triv –, la nuova alleanza invocata da Boccia non solo serve a ridare valore e centralità alla manifattura competitiva, ma aiuta la fabbrica a tornare protagonista e a riacquistare valore. In una nuova dimensione.
L’industria 4.0, infatti, nell’accezione comune è e deve diventare anche nella realtà lo spazio dove tecnologia, creatività e capitale umano si fondono nelle competenze diffuse sul territorio, che sanno legare produzione e servizi, innovazione di processo e qualità dei prodotti. “La fabbrica bella: cultura, creatività, sostenibilità”, non a caso, è il tema della prossima Settimana della cultura d’impresa, organizzata da Confindustria e Museimpresa. E fabbrica bella, ci ricorda proprio Calabrò, vuol dire luminosa, trasparente, accogliente, sicura, sostenibile, perché utilizza energia rinnovabile, opera uno scarso consumo di acqua, investe sul riciclo e sull’economia circolare. Una fabbrica intelligente e ben progettata. Come la Maserati e la Dallara, il borgo medioevale di Solomeo dove si fondono filosofia e arte di Brunello Cucinelli, la marchigiana Loccioni che investe sul recupero del fiume Esino, e le altre centinaia di fabbriche che costituiscono l’orgoglio del made in Italy.
Il patto della fabbrica chiede però anche nuove relazioni industriali e nuovi contratti legati alla produttività e alla competitività. Ma anche una cultura diversa che investa direttamente lo stesso mondo delle imprese, che devono interpretare il cambiamento in atto anche nella costruzione di un nuovo sistema di relazioni con la ricerca accademica. Per cui nessun alibi cari imprenditori, sindacati confederali, politici e professori. Datevi da fare perché se cambia la cultura della fabbrica, e torna a essere un valore sociale unanimemente riconosciuto, finalmente il paese avrà trovato un argine forte ai tanti no che ne impediscono il progresso.