Non c'è crescita con una politica prigioniera del “Modello superfisso”
Roma. Si può pensare di agevolare i giovani tassandoli per dare risorse ai più anziani? La logica suggerirebbe di no, ma in Italia sì. Questo principio in fondo è alla base della proposta del governo di destinare 7 miliardi di euro in tre anni alle pensioni, uno dei provvedimenti più corposi della legge di Stabilità, per anticipare il ritiro dei lavoratori più anziani. Secondo l’esecutivo grazie a questa mossa si libereranno posti di lavoro per i disoccupati: “Le 100 mila uscite anticipate, attraverso l’Ape agevolata e volontaria, possono aprire la strada a un rilevante turnover per i giovani”, ha dichiarato il ministro del Lavoro Giuliano Poletti. La concezione alla base della proposta è che il numero dei posti di lavoro sia fisso e che quindi se c’è disoccupazione giovanile è perché non ci sono abbastanza pensionati; il problema è che pur ammettendo un turnover del 100 per cento alla fine si avranno lo stesso numero di lavoratori e un numero maggiore di pensionati e tasse da pagare: basterebbe notare che in Italia le baby pensioni di ieri hanno prodotto i giovani disoccupati di oggi.
Si potrebbe pensare che dietro queste dichiarazioni ci sia solo ipocrisia, da parte di chi è consapevole di voler agevolare un elettorato sempre più anziano e contemporaneamente cerca di venderla come positiva per i più giovani, ma la realtà è peggiore perché la “staffetta generazionale” è condivisa da tutte le forze di opposizione, dai sindacati e dal mondo produttivo. Se qualcuno contesta i prepensionamenti del governo è perché non è stato fatto abbastanza, bisognava spendere di più: più persone andranno in pensione, più posti di lavoro ci saranno per i giovani, così tutti avranno un reddito.
Circa dieci anni fa, con un fortunato articolo sul sito Noisefromamerika, l’economista della Stony Brook University Sandro Brusco aveva definito questo schema concettuale, in cui sono imprigionati i ragionamenti e le proposte politiche in Italia, “Modello superfisso”: “Tale modello economico è in auge particolarmente tra sindacati e sinistra radicale, ma è assai diffuso anche in altri schieramenti politici così come tra pensatori indipendenti alla Beppe Grillo – scriveva Brusco nel 2007 – e i suoi elementi di base sono che i bisogni sono fissi, i metodi di produzione sono fissi, il mondo non cambia”. In un modello bloccato, in cui non è prevista la crescita economica e occupazionale e in cui non si dà alcun valore allocativo alle tasse e ai prezzi, l’unica cosa di cui ci si preoccupa è come redistribuire la torta. Purtroppo questo modello interpretativo, che Sandro Brusco attribuiva ad alcune frange che all’epoca erano “radicali” e marginali, dopo 10 anni è diventato egemone. Non solo perché movimenti come quello di Grillo sono ora forze politiche rilevanti, ma anche perché molte proposte di tutti gli altri partiti rientrano in un “Modello superfisso”.
Per la stessa logica la Lega di Salvini si oppone all’immigrazione: se i posti sono definiti, gli immigrati rubano il lavoro agli italiani. Allo stesso modo, in maniera trasversale, i partiti si oppongono alle liberalizzazioni: se aprono nuove attività sottraggono reddito agli altri o li costringono alla chiusura. Per lo stesso motivo c’è una forte opposizione all’innovazione tecnologica: i robot e le app rubano lavoro alle persone. In nessuno di questi casi viene presa in considerazione la crescita economica, produttiva e occupazionale: tutto è fisso. Persino Karl Marx 150 anni fa irrideva il compagno Weston con la sua idea di “un ammontare fisso dei salari, una quantità fissa di produzione, un grado fisso della forza produttiva del lavoro, una volontà fissa e costante dei capitalisti, e tutte le altre sue cose fisse”. Ora quella di Weston è la piattaforma su cui si confronta la politica italiana.
E’ forse naturale che dopo 10 anni di recessione e stagnazione il “Modello superfisso” possa sembrare un’approssimazione della realtà, ma il rischio è che diventi la prigione intellettuale che soffoca ogni prospettiva di crescita.