Globalizzazione in crisi
Urge un'alleanza “Pro global” per contrastare la gelata dei commerci
Roma. Aumentano i segnali di una gelata dei commerci mondiali mentre i leader delle nazioni più sviluppate si smarcano dall’idea della globalizzazione come motore economico planetario e i custodi della “scienza triste”, gli economisti e i tecnici, sono sotto schiaffo dell’opinione pubblica e della politica. Il momento rivelatore in cui s’è compresa la stagnazione degli scambi risale a settembre con la bancarotta della compagnia navale sudcoreana di trasporto container Hanjin: 14 miliardi di dollari di merci bloccate in mare per settimane. Per i commerci è stato un evento paragonabile al fallimento di Lehman Brothers. Per la prima volta è stato chiaro che il tessuto connettivo della globalizzazione, il trasporto marittimo via container – un’invenzione del 1956 che al pari dell’informatica ha reso più piccolo il mondo –, non sopporterebbe fallimenti a catena di altre multinazionali del mare che si sono ingigantite in tempi di vacche grasse. Il calo prolungato della domanda di servizi logistici e la conseguente crisi degli operatori è soprattutto indice di un rallentamento strutturale degli scambi, come notava ieri Binyamin Appelbaum sul New York Times. Il volume dei commerci globali è rimasto piatto nel primo trimestre 2016 e poi è calato dello 0,8 per cento nel trimestre successivo, secondo statistiche elaborate nei Paesi Bassi, patria del più grande porto europeo, Rotterdam. Secondo il Fondo monetario internazionale a un punto di crescita del pil mondiale corrisponde un aumento dei traffici dello 0,7 per cento, contro un aumento del 2,5 per cento negli anni Novanta. Tra l’anno scorso e i primi nove mesi di quest’anno le esportazioni e le importazioni degli Stati Uniti sono calate di 670 miliardi di euro complessivamente: per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale il commercio degli Stati Uniti con le altre nazioni è crollato mentre l’economia americana comunque cresceva. Intanto mentre il motore reale della globalizzazione rallenta al limite del grippaggio, quello ideologico, il liberismo economico, viene demonizzato con parole e atti definitivi dall’establishment politico atlantico, britannico ed europeo in accordo con la visione diffusa tra un elettorato che si ritiene vittima degli effetti perversi della globalizzazione stessa. Come uscirne?
I principali accordi commerciali tra Stati Uniti e paesi del Pacifico e Stati Uniti ed Unione europea sono contestati dai candidati alla presidenza di entrambi i maggiori partiti americani. Il Regno Unito lascerà l’Unione europea e, presumibilmente, verranno stabilite barriere alla libera circolazione di capitali, merci e uomini. Un istinto protezionistico in realtà non sorprendente: i 164 paesi membri dell’Organizzazione mondiale del commercio hanno fissato 2.100 nuove restrizioni agli scambi dal 2008 a oggi, secondo un report di luglio della stessa organizzazione. L’accordo di libero scambio tra Europa e Stati Uniti (Trans-Atlantic Trade Partnership) non è in buona salute e alcuni leader europei stanno considerando uno stop dei negoziati, al pari dei candidati alla Casa Bianca. Per rimediare Kristen Silverberg e Phil Levy – la prima è stata ambasciatrice presso l’Ue dal 2008 al 2009, il secondo consigliere economico per il commercio dell’Amministrazione George W. Bush – con un articolo sul Wall Street Journal di ieri hanno proposto un cambio di approccio al prossimo presidente americano: lanciare dei negoziati a tre tra Washington, Londra e Bruxelles per un “Nuovo patto atlantico per la crescita”. I diplomatici americani vedono nella Brexit una doppia opportunità: facilitare le trattative con Londra e non condannare alla decadenza l’alleato europeo. Vedremo.
Insieme all’opposizione dell’establishment c’è la diffidenza della popolazione occidentale che ritiene di non ricevere più i benefici economici della globalizzazione decantati in anni recenti dagli esperti più fiduciosi nella imperitura spinta del libero scambio sulla crescita economica – anche se forse è la politica a non avere contenuto gli effetti perversi di un processo dirompente e di dimensione epocale. Crescono le perplessità anche tra chi non è ideologicamente avverso a logiche di mercato. Secondo un sondaggio condotto in 44 paesi dal Pew Reseach Centre nel 2014, il 45 per cento del campione ritiene che il commercio abbia fatto aumentare i salari ma solo il 26 per cento ritiene abbia abbassato i prezzi delle merci. Gli esperti di economia hanno un ruolo cruciale nella percezione della realtà tra le masse e, dopo anni di purgatorio, possono ambire alla riscossa. Spesso accusati di miopia per non avere previsto la crisi finanziaria, ora non sono ritenuti affidabili da molti al punto che, quando rivestono i panni di tecnici, come il governatore della Bank of England, Mark Carney, vengono screditati dall’autorità politica. La colpa degli esperti, semmai, come nota George Magnus, già capo economista di Ubs e ora all’Università di Oxford – uno che aveva segnalato l’incombente crac mondiale nel 2006 –, è quella di “avere permesso che il pensiero economico evolvesse nei modi che hanno prodotto la miopia pre-crisi”. Magnus ritiene che adesso “gli economisti debbano accettare la sfida di contrastare o neutralizzare la diffusione del populismo dimostrando come la globalizzazione può essere gestita meglio rispetto a prima” e – come dice in uno scambio di e-mail col Foglio – “sono convinto che gli economisti debbano battersi per ciò in cui credono e debbano provare a spiegarsi meglio e più efficacemente”.