Start up. Tanto rumore per nulla? Alcuni dati americani
Come ogni lunedì, oggi è andata in onda "Oikonomia", la mia rubrica settimanale su Radio Radicale. Di seguito il testo con i link, cliccando qui invece potete ascoltare l'audio.
Dopo le ultime tre puntate di questa rubrica dedicate ai concetti teorici di “distruzione creatrice” di Joseph Schumpeter e di “innovazione dirompente” di Clayton Christensen, intendo segnalare alcune tendenze statistiche in materia di nuove imprese e imprese innovative in particolare. Parlerò degli Stati Uniti, lì dove l’espressione “disruptive innovation” è nata e dove tale processo è storicamente più radicato. Eppure, nonostante l’attenzione mediatica alle varie società in stile Facebook, Twitter e Uber, i dati più recenti a disposizione indicano che anche in America nascono sempre mento start-up, da intendersi in senso generico come piccole imprese ad alto potenziale di crescita e che per questo possono mettere a rischio la sorte degli incumbent. Ho detto “in senso generico” perché spesso, quando parliamo di start-up, ci riferiamo invece a quel sottoinsieme di piccole imprese con un elevato potenziale di crescita ma che operano soprattutto in ambito tecnologico.
Alcuni dati del Dipartimento del Commercio statunitense appena pubblicati scattano una fotografia del tessuto imprenditoriale della prima economia del pianeta al 2014. Da questi dati emerge, come ha sintetizzato il Wall Street Journal, che gli Stati Uniti stanno creando sì start-up, ma a tassi storicamente bassi. Ancora recentemente, cioè per tutti gli anni 80 e 90, un piccolo numero di nuove società aveva contribuito in modo più che proporzionale alla crescita dell’occupazione, allocando così lavoratori e risorse a quei segmenti più promettenti e fiorenti dell’economia. Adesso i numeri in arrivo da Washington descrivono una realtà meno dinamica. La percentuale di aziende che hanno meno di un anno di età sul numero totale di aziende è scesa dal 12 per cento per tutti gli anni 80 all’8 per cento attuale. Nel 2014 la quota di queste aziende neonate è la più piccola di sempre dopo il dato del 2010: dopo la crisi c’è stato quindi un rimbalzo, ma finora esso è stato minimo. Anche la percentuale di persone occupate in questo tipo di aziende, quelle con meno di un anno di età, è scesa dal 4 per cento del totale negli anni 80 a circa il 2 per cento oggi.
Tra le conseguenze di questa tendenza si segnala il fatto che la creazione di posti di lavoro, che comunque negli Stati Uniti c’è stata tanto che il tasso di disoccupazione è sceso al 5 per cento, è stata generata innanzitutto da un numero minore di imprese sempre più grandi. Questo mentre, negli Stati Uniti, continua ad accentuarsi la concentrazione geografica delle start-up tecnologiche: secondo i dati di Dow Jones VentureSource, nel 1995 circa il 30 per cento di tutto il venture capital investito negli Stati Uniti era diretto nella Bay Area, cioè nella zona della California dove sorge la famosa Silicon Valley; nel 2015, verso quella stessa area, è stato indirizzato il 50 per cento di tutto il venture capital americano (che nell’anno in questione ammontava complessivamente a 68 miliardi di dollari).
Gli economisti della Casa Bianca hanno fatto capire inoltre che il rallentamento del tasso di imprenditorialità può spiegare in parte la relativa lentezza dell’attuale ripresa del paese, in corso dalla metà del 2009 con un tasso medio di crescita del pil pari da allora al 2,1 per cento. Infatti, per citare l’ultimo rapporto annuale della Casa Bianca, “le aziende giovani che sopravvivono (al primo anno d’età) crescono più rapidamente delle aziende più vecchie e affermate”.
Infine se è vero che le nuove aziende sono relativamente meno numerose che in passato – hanno osservato sempre da Washington – diventa più difficile per i lavoratori trovare un’occupazione che si sposi al meglio con le loro qualifiche e ciò diminuisce la produttività complessiva.
Pur precisando nuovamente che questi dati sulla minore imprenditorialità americana sono calcolati a partire dalle statistiche su tutte le nuove aziende con meno di un anno d’età, e che dunque è difficile capire se il sottoinsieme di quelle tecnologiche si trovi nello stesso pantano, è interessante passare in rassegna alcune delle possibile cause di questo andamento.
Secondo la banca d’affari Goldman Sachs, per esempio, gli Stati Uniti pagano il prezzo di un numero crescente di regolamentazioni nate dopo la Grande recessione del 2008-2009: queste regolamentazioni riducono la disponibilità di credito e rendono più gravoso fare affari in generale.
Secondo poi la Brookings Institution, pensatoio con sede a Washington, è possibile che la demografia stia giocando un ruolo determinante: nello specifico, pesa il rallentamento della crescita della popolazione nelle regioni occidentali, sud occidentali e sud orientali degli Stati Uniti a partire dall’inizio degli anni 80, lì dove i dati sulla natalità delle imprese erano maggiori fin dagli anni 70.
Il Wall Street Journal analizza un altro possibile effetto della demografia: “I baby boomers, cioè i nati tra 1945 ed il 1964 in Nordamerica, stanno andando in pensione e i cosiddetti millennials, cioè i nati tra i primi anni 80 e i primi anni 2000, stanno solo ora entrando nella fascia d’età che è più comune tra gli imprenditori”.
Per l’analista Fareed Zakaria, la demografia ha un altro ruolo ancora: i baby boomers, formatisi negli anni 60 e nella loro controcultura, sono stati tendenzialmente ribelli in tutto, anche nella loro attività imprenditoriale da coltivare possibilmente fuori dal seminato. I giovani americani di oggi, in confronto, rischiano di passare per delle persone avverse al rischio.