In occidente riparte la gara ad abbassare le tasse sui produttori
La corporate tax come leva pro crescita e per attrarre i capitali esteri. Parla Luca Ricolfi, sociologo dell’Università di Torino.
Roma. Ieri in Italia teneva banco l’ennesimo scontro verbale a distanza tra Palazzo Chigi e Berlino. Il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, è intervenuto al Bundestag criticando la Commissione europea che aveva chiesto maggiori investimenti pubblici alla prima potenza economica del continente: piuttosto Bruxelles controlli che i bilanci “di singoli paesi europei corrispondano alle regole e agli accordi europei”, ha replicato il ministro riferendosi alle recenti aperture sull’utilizzo della leva fiscale da parte degli stati membri. Matteo Renzi, che con Bruxelles sta conducendo una lunga trattativa diplomatica per strappare spazi di manovra utili alla prossima legge di Stabilità, dev’essersi sentito chiamato in causa: “La Ue cominci a controllare il bilancio tedesco – ha detto il presidente del Consiglio italiano – perché il surplus di Berlino sta creando problemi a tutta l’Europa”. Prosegue insomma, seppure in maniera un po’ stanca e ripetitiva, il confronto intraeuropeo sul giusto mix di politica fiscale per potenziare l’uscita dalla crisi. Eppure da qualche tempo non è più questo l’unico fenomeno importante nel campo delle scelte fiscali che gli analisti e i commentatori globali seguono con attenzione. Ieri il Wall Street Journal, per esempio, confermava che “sta scattando una competizione globale per tagliare il più possibile le tasse sulle imprese”. Gli ultimi a essersi iscritti a questa corsa sono il presidente eletto degli Stati Uniti, Donald Trump, e il primo ministro inglese, Theresa May. Il primo, durante la campagna elettorale per la Casa Bianca, ha mandato un messaggio tutt’altro che univoco di politica economica, ma è stato piuttosto netto sulla volontà di ridurre l’aliquota della corporate tax statunitense dal 35 al 15 per cento circa. La May, invece, lunedì scorso ha detto di sostenere il piano del predecessore David Cameron: corporate tax dall’attuale 20 per cento al 17 per cento entro il 2020.
I piani di riduzione fiscale di May e Trump sono ancora sulla carta, ma la competizione globale ad abbassare la tassazione sulle imprese è già realtà. Tra i primi a scegliere questa direzione c’è stata la Spagna del premier popolare Mariano Rajoy, al governo dal 2011 e appena rieletto a capo di un governo di minoranza. Non a caso nel 2015 anche Renzi, annunciando la limatura dell’Ires (Imposta sul reddito delle società) che scatterà con la prossima legge di Stabilità, disse esplicitamente di voler rincorrere e superare Madrid.
Perché dunque tanta enfasi sulla tassazione delle imprese? Una possibile spiegazione la fornisce la storia recente dello sviluppo dei paesi industrializzati. Due anni fa, nel suo libro “L’enigma della crescita” (Mondadori), Luca Ricolfi, sociologo e docente dell’Università di Torino, dimostrò numeri alla mano che la tassazione dei “produttori” era una variabile estremamente utile a spiegare i diversi livelli di crescita del decennio pre-crisi. Scriveva Ricolfi: “Alte tasse frenano la crescita, basse tasse la promuovono. Però, attenzione: non tutti i tipi di tasse hanno un effetto apprezzabile sulla crescita. (…) Le tasse che frenano la crescita sono quelle che gravano direttamente sull’impresa e sui suoi utili. Questo spiega, per esempio, casi come quello della Svezia e della Finlandia. Questi due paesi, nel periodo da noi studiato (1995-2007), hanno realizzato una sorta di miracolo: alte tasse e alta crescita. Ma lo hanno potuto realizzare perché le loro alte tasse non erano quelle che frenano la crescita: in Svezia e in Finlandia la pressione fiscale complessiva è molto alta (…) ma le imposte che gravano direttamente sulle imprese sono fra le più basse d’Europa”. I leader di governo stanno facendo tesoro dell’esperienza? Replica oggi Ricolfi al Foglio: “Ho continuato le mie ricerche, tentando di spiegare l’attuale fase di relativa stagnazione di alcune economie mature. Molte delle ‘leggi’ che valevano per il periodo pre-crisi non valgono oggi, ma in generale è ancora vero che la pressione fiscale complessiva e il livello dei contributi sociali non sono decisivi per spiegare i livelli di crescita quanto invece lo è il livello delle imposte societarie, in Italia cioè la somma di Ires e Irap. Nell’Eurozona, questo fattore è ancora decisamente rilevante”. Secondo nuove analisi che Ricolfi sta elaborando, la maggior parte del dislivello di crescita interno all’Eurozona si spiega proprio con il diverso peso del prelievo sui produttori e con la mole del debito pubblico: “L’Italia è messa male su entrambi i fronti”. Nell’estate del 2015, su queste colonne, lo studioso salutò l’annuncio renziano di voler battere Madrid sull’abbassamento delle imposte per le imprese come “una grande novità, un cambiamento di Dna per il centrosinistra”. Oggi Ricolfi è meno ottimista: “L’esecutivo ha perso l’attimo” scegliendo di “inseguire il consenso elettorale, concentrando risorse sulla riduzione dell’Irpef con gli 80 euro e su altre misure-mancia”.
Se l’esperienza passata conta, per i paesi fuori dall’euro lo snellimento della corporate tax sembra dettato soprattutto da un altro motivo: “Lo scopo virtuoso di questi provvedimenti, nei paesi anglosassoni – dice Ricolfi – è soprattutto quello di non essere spiazzati dalla concorrenza internazionale. La corporate tax è un indicatore chiaro, rispetto al quale gli investitori internazionali sono molto sensibili, fondamentale dunque per migliorare l’attrattività di un sistema”.
L’Europa sbaglia continuando a discutere di “flessibilità” da strappare a Bruxelles sui conti pubblici? “Per paesi come l’Italia o la Francia, dove la spesa pubblica è già pari al 50 per cento del pil, inizio a ritenere che una dose di ‘rigidità’ sia più utile – conclude Ricolfi – Aumentare la spesa, in questi paesi, equivale infatti a espandere ancora il perimetro dell’intervento pubblico, al punto che questo diventerà soffocante per ogni forza produttiva”.