Il pil non farà la felicità degli italiani ma aiuta. Vedi i dati Istat
Per la prima volta dal 2011 torna la “soddisfazione dei cittadini per le condizioni di vita”. Il fascino della decrescita non esiste
Roma. “I soldi non fanno la felicità”, si sente dire spesso a ragione, ma di certo non è più utile allo scopo la loro mancanza. In questi anni in cui la crisi economica, la recessione e la disoccupazione hanno colpito milioni di italiani, si sono paradossalmente diffuse molte teorie e visioni del mondo che mettono in discussione l’importanza della crescita economica, proprio quando essa è venuta a mancare. Sono tante le critiche, molte delle quali fondate, rivolte all’attuale modello economico e al suo indicatore principe, il pil: la maggiore disponibilità di beni e servizi non implica una migliore qualità della vita, il denaro è diventato l’unica misura del benessere di una società, ai fini della crescita economica non vengono conteggiate attività di valore ma gratuite come il volontariato mentre sono inclusi l’inquinamento e le attività criminali.
Chi fa questo tipo di ragionamento ama citare un celebre discorso di Bob Kennedy: “Il pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio né la nostra saggezza né la nostra conoscenza né la nostra compassione. Misura tutto, eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta”. Resta però un’evidenza: quando il pil scende la gente è più infelice, quando invece il pil sale si sente più appagata. Ed è esattamente ciò che è accaduto negli ultimi anni in Italia. Nel report sulla “soddisfazione dei cittadini”, l’Istat segnala che nel 2016, per la prima volta dopo cinque anni, gli italiani “si dichiarano decisamente più soddisfatti delle proprie condizioni di vita”. L’indice include una pluralità di fattori, di tipo materiale e immateriale, come condizione economica, salute, lavoro, relazioni familiari e amicali, tempo libero. “Dopo il forte calo evidenziatosi tra il 2011 e il 2012, il 2016 è il primo anno in cui il giudizio di soddisfazione si riavvicina in media ai livelli del 2011”. Rispetto al 2015, quando erano il 35 per cento, i “molto soddisfatti” sono saliti di 6 punti, al 41 per cento, mentre gli insoddisfatti sono scesi di 4 punti.
In sintesi il grado di soddisfazione ha seguito la dinamica del pil, si è drasticamente ridotto dopo il 2011 ed è risalito – senza raggiungere ancora i livelli pre-crisi – con la ripresa economica e occupazionale dell’ultimo anno. Aumenta la quota di persone soddisfatte della propria situazione economica, dal 47,5 al 50,5 per cento, e cresce la quota di famiglie che giudicano la situazione economica invariata o migliorata. Ma più in generale il livello di soddisfazione per la vita, anche quando viene suddiviso per classi di età, ripartizione territoriale, condizione professionale o titolo di studio, tende a seguire l’andamento del pil. Ad esempio nel Mezzogiorno, dove la crisi si è sentita in maniera più forte, il grado di soddisfazione era stato più accentuato. Ora il sud fa registrare un aumento più consistente, pur restando al di sotto del 2011 a causa di un gap più ampio, ma al nord e al centro il livello di soddisfazione è più alto ed è tornato “ai livelli precedenti il periodo di crisi”. Il divario geografico sulla soddisfazione personale è sovrapponibile infatti al quesito più specifico sulla soddisfazione per la situazione economica: “A dichiararsi molto o abbastanza soddisfatto – dice l’Istat – è il 58,4 per cento dei cittadini del nord, il 51,9 di quelli del centro e solo il 39,3 dei residenti nel Mezzogiorno”.
Il livello di felicità è influenzato dalla condizione occupazionale, non solo perché la popolazione attiva è più soddisfatta rispetto a chi non ha un’occupazione, ma anche perché a influire sul giudizio sulla propria vita è il tipo di professione: “I dirigenti, gli imprenditori e i liberi professionisti, insieme ai quadri e agli impiegati, dichiarano livelli di soddisfazione più alti rispetto ai punteggi di operai e lavoratori in proprio. Le persone in cerca di occupazione e le casalinghe esprimono, come in passato, il giudizio più basso”. Sempre in un quadro di miglioramento generale, il livello di soddisfazione cresce anche in base al titolo di studio: “La quota dei molto soddisfatti passa dal 32,9 per cento di chi ha solo la licenza elementare al 47,7 per cento dei laureati”. Si può ritenere che sia la cultura a portare felicità, ma molto probabilmente ciò è vero nella misura in cui un più robusto capitale umano permette di svolgere lavori meglio retribuiti. Naturalmente non sempre la felicità segue la maggiore disponibilità di risorse, ci sono logiche che sfuggono a questa dinamica. La soddisfazione per la propria vita diminuisce all’aumentare dell’età: sono altamente soddisfatti il 54,1 per cento dei giovani tra 14 e 19 anni e solo il 34,4 degli ultra 75enni.
Ma anche in questa comprensibile tendenza generale – più si è giovani e più si è felici – ci sono dati in controtendenza. Ad esempio fanno eccezione due classi di età, che indicano valori di soddisfazione maggiori rispetto a chi li precede: la classe 35-44 anni si ritiene più soddisfatta della classe 20-34 e quella 65-74 più della 55-64. Anche in questo caso però a incidere sembrano le condizioni economiche, in un paese che ha la disoccupazione giovanile tra le più alte d’Europa e ha visto crescere il reddito dei pensionati più di qualunque altra categoria. I soldi non rendono felici, ma aiutano. I dati Istat ricordano che, al di là del continuo bombardamento mediatico di cattive notizie, ciò che veramente conta per i cittadini sono le reali condizioni materiali che misurano nella loro vita quotidiana. Non si sa se i dati dell’economia in lieve miglioramento saranno giudicati sufficienti o scarsi il prossimo 4 dicembre , ma è anche su questo che gli italiani voteranno al referendum. It’s the economy, stupid.