Perché il taglio alla produzione dell'Opec interessa Fed e Bce
Arabia Saudita e Iran trovano l’accordo per ridurre la produzione di greggio e fare salire i prezzi. L’inflazione può ripartire
Roma. L’Opec taglierà la produzione di petrolio per la prima volta in otto anni nel tentativo di aumentare il prezzo del greggio depresso dall’eccesso di offerta negli ultimi due anni. Il cartello dei 14 paesi esportatori, che valgono un terzo della produzione petrolifera mondiale, riunitosi a Vienna, ha messo da parte le rivalità tra i membri più influenti, l’Arabia Saudita e l’Iran, che avevano portato a molte riunioni inconcludenti. A settembre l’Opec aveva annunciato un taglio e quindi ieri ha dovuto procedere con i fatti per non perdere la credibilità residua. L’Opec taglierà dunque la produzione di 1,2 milioni di barili al giorno, a 32,5 milioni di barili, a partire da gennaio, ha detto il presidente dell’Opec Mohammed Bin Saleh al Sada, ministro dell’Energia del Qatar. L’Arabia Saudita, monarchia sunnita e primo produttore Opec, finora aveva resistito a tagliare l’output e lo stesso aveva fatto l’Iran, ierocrazia sciita, dicendo di fare fatica a recuperare livelli decenti dopo anni di sanzioni economiche occidentali. L’Arabia Saudita taglierà la sua produzione di 486 mila barili dai più di 10 milioni prodotti ogni giorno. Il sacrificio per l’Iran sarà in proporzione minore, da 3.975 milioni di barili al giorno a 3.797.
La Russia, altro peso massimo degli idrocarburi che però non fa parte dell’Opec, ha intenzione di collaborare con il cartello riducendo il suo output. L’eccesso di offerta generato dai paesi esterni all’Opec, Russia e Stati Uniti in primis, aveva fatto scendere il costo del greggio sotto i 100 dollari nel 2014. La ritrosia dell’Opec a tagliare la produzione aveva poi spinto i prezzi ai minimi da oltre un decennio, sotto i 30 dollari, lo scorso gennaio. Dopo l’annuncio di ieri, il prezzo del Brent, il benchmark del mercato, è salito dai 46 a oltre 50 dollari, galvanizzando le Borse europee e Wall Street. La scelta darà sollievo a paesi Opec piegati dalla crisi economica come Algeria e Venezuela. Senza un taglio, gli analisti si aspettavano una discesa del prezzo sotto i 40 dollari. Con un taglio, invece, le previsioni oscillano tra i 50/65 dollari al barile ai 70 dollari. Il costo più alto del greggio si trasmetterà ai prezzi di carburanti, riscaldamento, elettricità e contribuirà all’aumento generale dei prezzi con un impatto sull’inflazione e sulle politiche delle Banche centrali di Stati Uniti, Europa e Giappone. Probabilmente accelererà il percorso di aumento dei tassi in America e le discussioni sull’exit strategy dal Quantitative easing della Banca centrale europea e della Bank of Japan.
A novembre la Fed, guidata da Janet Yellen, aveva indicato un rialzo dei tassi “relativamente presto” e gli analisti s’attendono una decisione a dicembre dato che mercato del lavoro e inflazione sono “messi bene”. Un aumento del costo del greggio può offrire l’assist. La Fed invero non guarda al tasso di inflazione generale, già superiore all’obiettivo statutario del 2 per cento, ma all’indice core dei prezzi pagati dai consumatori per beni e servizi depurato da cibo e petrolio, una misura più precisa – e il tasso è ancora inferiore al target, era all’1,7 per cento a ottobre. Se tecnicamente il momento può non essere perfetto, la pressione inflazionistica generata dal greggio potrà incoraggiare la Fed a tornare sui suoi passi, ovvero a programmare aumenti dei tassi in successione – tre o quattro in un anno – nel corso del 2017, proprio come aveva intenzione di fare nel 2016 senza però poi agire di conseguenza sia per i marosi del mercato sia per l’attesa delle presidenziali poi vinte a novembre da Donald Trump. L’aumento dei prezzi darebbe anche la possibilità ai produttori di shale oil e gas americani di stabilizzare la produzione o di aumentarla.