Cos'è che paralizza quell'Italia che tiene i soldi sotto il materasso
Questione economica? Macché, il problema è il crollo delle istituzioni: “Salta la cerniera tra popolo e politica e il populismo è nel rancore di questi due mondi rimasti senza mediazione”, dice il presidente del Censis
Un grande paese di rentier che non investe nel proprio futuro. Il Censis fotografa quest’anno un’Italia ricca e sostanzialmente immobile. Ricca di patrimoni immobiliari, e questo è noto, ma la novità vera è la crescita continua della liquidità tenuta sostanzialmente sotto il materasso. Non c’è solo l’aumento continuo dei depositi in banca (anche se danno un rendimento zero), ci sono anche le cassette di sicurezza piene di biglietti da 500 euro e di altro ancora. Un fenomeno impressionante: 818,4 miliardi di euro, pari al quinto prodotto lordo d’Europa, con un incremento di ben 114 miliardi (il pil dell’Ungheria) dal 2007. E’ l’effetto della crisi, se si legge la crisi non in modo pauperistico. E’ un paese che s’arrocca e si blocca. E’ la spiegazione della stagnazione infinita dalla quale non siamo ancora usciti.
Questa foresta pietrificata mostra enormi contraddizioni. I millennial, sostiene il Censis, sono oggi meno ricchi di quanto non fossero i loro coetanei 25 anni fa. Debbono attendere la morte dei loro genitori per ereditare quei beni accumulati e tenuti in serbo per un futuro per forza di cose meno roseo se il risparmio accumulato non verrà investito. Per capire il senso di questa paralisi collettiva bisogna guardare non all’economia, che mostra anche segni importanti di tenuta (le esportazioni, il turismo, l’alimentare, il lusso sono quattro filiere di eccellenza mondiale), e nemmeno nell’assetto della società che, pur percorsa da molteplici choc (dalla Brexit al terremoto), è segnata da una sostanziale continuità.
“La barca va, ruminiamo, cicatrizziamo, galleggiamo”, sostiene Giuseppe De Rita. E allora dov’è la chiave di lettura? E’ nel crollo delle istituzioni che hanno tenuto insieme il paese in questi 50 anni durante i quali il Censis ha passato al microscopio l’Italia. “E’ saltata la cerniera – aggiunge De Rita – tra popolo e politica. E a farla saltare è stata da una parte la politica che ha invaso le istituzioni e dall’altra un corpo sociale che le ha rifiutate. Il populismo è nel rancore di questi due mondi rimasti senza mediazione, che si scambiano il reciproco disprezzo”. Quel che lo preoccupa è “il tradimento dei chierici, diventati o uomini del potere o lobbisti, portatori di interessi particolari”. E aggiunge: “Il problema è che chi ci governa è egli stesso populista”.
Per questo De Rita, che finora non si è esposto pubblicamente, ha deciso di votare No al referendum. Non gli piace l’aspetto giacobino che c’è nelle riforme renziane e ancor più nel suo modo di governare. Una critica esplicita l’aveva fatta l’anno scorso nelle considerazioni introduttive, e quest’anno, durante i seminari nel “mese del sociale”, ha invitato a ripartire dal basso, riscoprendo e rilanciando il modello italiano, quello dei distretti, dei campanili, dell’economia diffusa nel territorio. Oggi il Censis individua dentro quel modello anche una “seconda èra del sommerso”, fatta non tanto di produzione come negli anni Settanta, ma di reddito, una economia del rentier, l’avrebbe chiamata Keynes, ma micro, che De Rita definisce “sommerso post-terziario dove vive un magma di interessi e comportamenti” (attività lavorative, fonti di reddito plurime, nuovi percorsi imprenditoriali, in un’atmosfera di diffuso primato dell’immateriale).
Il Censis deve la sua fama e la sua fortuna all’analisi e alla celebrazione del “sommerso pre-industriale”. Ora si dedicherà a indagare il nuovo fenomeno del quale sfuggono ancora i contorni e le ricadute. Dunque, la strada per il prossimo anno (e forse chissà quanto ancora) è segnata, perché questo è un fenomeno che sfugge alle statistiche ufficiali e all’elaborazione politica. In basso, testa in giù ad annusare quel che si muove tra i nuovi fili d’erba: se diventeranno anch’essi cespugli, sia pur diversi, l’Italia vivrà una ripartenza come quella avvenuta negli anni Ottanta. Se no, “i prossimi tempi rimarranno, rilkianamente, da qualche parte nell’incompiuto”.