Come cambiano gli equilibri nell'Opec
Analisi dell'accordo che sta spingendo il petrolio verso i 60 dollari
L'accordo raggiunto la settimana scorsa a Vienna dall'Opec pare aver finalmente stappato il mercato energetico alimentando le speranze di un suo ribilanciamento. L'industria, la finanza, i grandi investitori, tutti si aspettavano un segnale significativo che - dopo svariati buchi nell'acqua nei mesi precedenti - è finalmente arrivato. Decisiva la mediazione del nuovo segretario generale del cartello, il nigeriano Mohammed Barkindo, che da quando è salito al vertice dell'organizzazione (lo scorso giugno) non ha smesso di ricercare una "cooperazione vitale" con i paesi produttori non appartenenti all'Opec, leggi la Russia. Una diplomazia economica che ha dato i suoi frutti.
Senza un accordo parallelo con Mosca sarebbe stato impossibile raggiungere il consensus all'interno del cartello. Barkindo ha giocato di sponda con altri due protagonisti dell'Opec, il ministro del petrolio venezuelano, Eulogio del Pino e quello algerino, Noureddine Bouterfa. Sono loro che sono volati a Mosca qualche giorno prima del meeting austriaco per siglare il patto finale con il Cremlino. Ed è qui che si è svolto in realtà il vero negoziato sulla riduzione della produzione, con l'impegno russo di ridurre la produzione di 300 mila barili al giorno, una diminuzione sostanziosa che è servita anche da garanzia - richiesta dall'Arabia Saudita - per concedere all'Iran di essere l'unico paese del cartello a non dover rispettare il taglio alla produzione.
Come prevede l'accordo viennese, infatti, nel 2017 gli ayatollah potranno aumentare la loro produzione di 90 mila barili al giorno. Un puzzle complicato che ha visto il ministro algerino Bouterfa fare la spola tra Teheran e Mosca più volte nei giorni precedenti il vertice. La Repubblica islamica può essere quindi considerata la vincitrice di quest'ultimo scontro interno all'Opec? La stessa fragilità dell'accordo deriva dal fatto che ci sono membri del cartello che dovranno pagare un prezzo maggiore rispetto ad altri. Pensiamo all'Iraq, un paese piegato dalla guerra all'Isis e dalle divisioni etnico-religiose interne.
Baghdad ha acconsentito con riluttanza a tagliare la sua produzione di 210 mila barili al giorno su una stima dei calcoli basati su dati secondari (ovvero esterne a quelle degli analisti Opec) che non considera indipendenti e affidabili. L'Iraq ha chiesto fino all'ultimo di essere esentato dal taglio - come invece accordato a Libia e Nigeria - ma senza successo. Differenze di trattamento che potrebbero pesare in futuro. Riad e i suoi alleati del Golfo Persico, come il Kuwait, gli Emirati Arabi Uniti e il Qatar, si faranno carico della maggior parte dei tagli, scommettendo sul rapido recupero dei prezzi. Sono i membri del cartello più esposti alla riduzione - stiamo parlando di 486 mila barili per i sauditi, 139 mila barili per gli Emirati, 131 mila barili per il Kuwait e 30 mila barili per il Qatar, secondo i dati forniti dall'Opec - con il rischio di vedersi sorpassati da produttori in ascesa come l'Oman che non facendo parte del cartello potranno sfruttare le debolezze produttive regionali per pompare più greggio nel mercato. Altro 'caso speciale' è l'Indonesia che è stata nuovamente sospesa dall'organizzazione e - hanno spiegato i delegati - ora la sua quota produttiva (oltre 700.000 barili/giorno) deve ancora essere determinata.
Non è un caso dunque che proprio la consapevolezza di un accordo fragile già in partenza sta spingendo l'Opec a mettere attorno ad un tavolo anche gli altri player non Opec, si parla di una possibile riunione a Doha già il 9 dicembre, per stringere un patto anche con loro. Indirettamente le decisioni viennesi forniscono al momento ulteriore vantaggio al rilancio della produzione energetica americana, che il presidente eletto Donald Trump vuole potenziare, ma è anche troppo presto per definire le direttrici dell'agenda energetica internazionale trumpista. L'accordo di ieri sta già dando una mano ai produttori statunitensi di petrolio da scisti (tight oil), che comunque hanno risentito meno del previsto della decisione dell'Opec del 2014 di non ridurre la produzione: dal picco di 9,6 milioni di barili al giorno nell'aprile del 2015, il greggio pompato negli Usa è sceso a settembre a 8,58 milioni. Potrebbe essere stato toccato il fondo. Il West Texas Intermediate, il benchmark statunitense, ieri è risalito sopra i 50 dollari al barile, così come il Brent.