“La marcia francese sul deserto capitalistico”. Parla Micheli
La saga francese in Italia è lunga, non sembra un’operazione spot ma strategica
Roma. Come nel film di Kurosawa, Rashômon, Francesco Micheli, 79 anni, autore della prima scalata in Piazza Affari alla Bi.Invest di Carlo Bonomi nel 1985, definito uno dei manager più coriacei della finanza italiana, analizza da diverse angolature la genesi dell’assalto di Vivendi di Vincent Bolloré a Mediaset – atto terminale della calata della corporate francese in Italia. “Come in quel delitto – dice Micheli al Foglio – ci sono interpretazioni diverse. Lo scenario tecnico può parlarci o di una combine tra Berlusconi e Bolloré, vista la similitudine dei due personaggi, oppure di un assalto vero per cui Bolloré farebbe un magnifico filotto: Vivendi, Telecom e Mediaset, roba da antitrust. Ben in linea con quel che succede nel mondo delle Tlc. Ma, vista l’escursione di prezzo del titolo Mediaset, potrebbe anche trattarsi di una speculazione in cui Bolloré grida al mercato le sue intenzioni e ne trae vantaggi immediati, come cercò di fare Ricucci quando era oberato dal debito per gli acquisti di azioni Rizzoli. O, infine, c’è un certo numero di partecipazioni del 2 per cento in giro che, guarda caso, si ritroveranno di colpo, sorpresa, sotto lo stesso cappello. Certo è che con un balzo del 20-30 per cento la Consob francese avrebbe sospeso il titolo e imposto il mantien des cours, qui da noi la regola che il mercato non deve mai interrompersi e si prende tempo”.
Eppure la saga francese in Italia è lunga, non sembra un’operazione spot ma strategica. “Va sul filo del quadro generale di un paese che sta gradualmente perdendo pezzi pregiati del suo capitalismo: Pirelli, Pesenti e soprattutto Fiat Avio per sostenere l’operazione Chrysler e poi la Giovanni Agnelli & C. trasferita e rivestiva in Olanda da BV, simile a una srl italiana. Il catalogo è grande anche per le decine di ex municipalizzate cedute ai francesi, attenti alle utilities italiane, e in più quella miriade di piccole e medie aziende che passano di mano verso l’estero senza clamore mediatico”. Il capitalismo italiano è insomma fagocitato? “Stiamo assistendo a una ‘desertificazione’ perché è vero che il mondo oggi è un tutt’uno, dove le persone vanno e vengono come non mai, ma da noi sembra tornare ai tempi di Carlo V. Un’evidente debolezza strutturale e di fondo della politica inimmaginabile fino a poco tempo fa”. Perché solo (o quasi) in Italia? “È la fotografia anche della crisi di classe dirigente che ha affossato le banche: è la fine del parterre dei salotti. Restano quelli veri dei grandi operatori finanziari, delle banche d’affari, da JP Morgan a Goldman Sachs. Giovanotti che usano algoritmi predatori e dispongono di capitali sovramultipli della liquidità delle Banche centrali”.
Non c’è stata grande resistenza né adeguata capacità di assecondare la globalizzazione finanziaria, se non in modo negativo. Classe dirigente e rivalità italiane hanno dato modo di farlo? “Per cambiare la classe dirigente i tempi sono quelli generazionali mentre la classe politica cambia con celerità mai viste prima. Sono amico di Matteo Renzi e l’ultima cosa che farei è quella di maramaldeggiare. Renzi ha straordinarie qualità politiche e il sacro fuoco dei quarantenni. Il futuro è certamente sulle sue ginocchia. Peccato che appena ricevuto l’incarico da Napolitano non abbia subito denunciato la evidente, reale situazione del sistema bancario, che ha ereditato”.
Qual è la colpa di Renzi? “Non si può chiedere a un neurochirurgo, un politico fine come lui, di intervenire su un problema cardiaco: di decidere su un sistema complesso come quello bancario. S’è fidato come spesso succede al Pontefice di cardinali che gli fanno sapere solo quello che va bene a loro. Il ‘governo Boschi’, che peraltro è la più brava del reame, lo dimostra”. Specularmente a una classe dirigente italiana deficitaria o distratta o entrambe c’è però una classe manageriale francese aggressiva e preparata. O no? “Mi trovo a condividere l’intuizione di Enrico Cuccia quando diceva che se gli stranieri sono più bravi a gestirle le cose se lo meritano. Io e Cuccia avevamo un rapporto di odio e amore, sono l’unico sopravvissuto alle sue angherie, ma ci aveva visto lungo”.
L’Italia non ha difese dall’arrembaggio? “C’è una certa arroganza nei nostri cugini, spesso cortesi come macigni, ma dalla loro c’è una struttura industriale e amministrativa di prim’ordine, l’Ena e una tradizione che va dalla pace di Westfalia dopo la guerra dei Trent’anni, che segna l’ascesa di Luigi XIV, grazie al suo ministro delle Finanze Colbert, ed è tuttora presente nel capitalismo d’oltralpe”.
E’ indipendente dalla politica? “C’è la punta dell’iceberg, la politica debole di Hollande ma c’è anche una parte sommersa, potente, con interessi transnazionali radicati che permettono a finanza e imprese francesi di resistere alle debolezze europee. Société Générale capace anche di ristrutturare, cosa che non si è ancora vista nelle nostre banche, forte anche di una presenza dell’80 per cento all’estero, fa soldi in Africa e altrove senza essere soffocata dai tassi europei sotto lo zero, e ora è possibile acquirente di Unicredit, la quale deve rimediare agli errori passati ma finalmente con un ottimo piano di ristrutturazione… del francese Jean Pierre Mustier”.