Ode breve agli investimenti stranieri in Italia
Oltre Vivendi. Chi l’ha detto che lo stato deve fermare tutti i soldi che dall’estero arrivano qui?
I lettori più anziani (e tutti i romani) si ricorderanno certamente il mitico film “Il vigile” con Alberto Sordi e Vittorio De Sica. A un certo punto il vigile Otello Celletti, all’insegna di un programma anti-corruzione (o-ne-stà!) si candida a sindaco per il partito monarchico e riscuote un certo successo. Vittorio De Sica, sindaco in carica, gran signore ma affarista, decide di invitare a una festa elegante Otello affinché molli tutto in cambio di una sostanziosa contropartita. Sordi accetta riluttante l’invito e mentre la moglie Amalia gli aggiusta la cravatta le espone i suoi dubbi: “Amà non vorrei che questi me se volessero comprà”. Lei: “Magari te se comprassero!”. Ecco, il dibattito politico sulla presunta invasione degli stranieri predatori che si stanno acquistando pezzi d’Italia poco per volta assomiglia molto a quello tra Otello ed Amalia. Da una parte la stragrande maggioranza della classe politica paventa l’arrivo dei forestieri e, non potendo ragionevolmente erigere le barricate quando viene comprata l’Inter o la Roma, si rifugia nel concetto di imprese “strategiche”.
Il concetto non è chiaro, anche se qualche legge ha cercato di esplicitarlo attraverso liste più o meno allargate. Sarebbero ricomprese nella categoria le industrie rilevanti per la sicurezza nazionale (non solo la difesa, anche le telecomunicazioni), quelle la cui attività si svolge in regime di monopolio o semi monopolio magari locale (porti, aeroporti o ferrovie, ad esempio), che gestiscono reti (Terna, Autostrade) o la produzione e la distribuzione di energia e gas (Enel, Eni) o trasporti (Alitalia) o che possono influire sull’opinione pubblica (mass media) oppure operano in aree protette dalla costituzione (la tutela del risparmio, quindi le banche, come pensava l’ex governatore Fazio). Una costellazione non legata da un filo comune e cangiante a seconda dei gusti personali del governo o dell’Autorità di vigilanza di turno. Certo, l’Europa ha un po’ messo in difficoltà questo schema, perché la libera circolazione dei capitali, una delle quattro libertà fondamentali europee, rende difficile opporsi a una vendita quando l’acquirente è del Vecchio Continente; tutto l’armamentario giuridico approntato alla bisogna, in primis la famosa golden share che dà diritto di veto al governo, è stato smantellato o indebolito proprio dalla Commissione di Bruxelles o dai giudici di Lussemburgo. Ma a prescindere dalla black letter of the law, c’è qualche giustificazione (oltre alla normativa antitrust) per l’intromissione dello Stato nei passaggi di proprietà che riguardano aziende private o sottoposte a regole di diritto privato?
Se vivessimo in un pianeta senza Stati nazionali e senza furfanti, dove l’informazione è trasparente e disponibile, la risposta sarebbe un secco no. Non essendoci ancora questo mondo ideale, una prima discriminante può riguardare l’onorabilità dell’offerente, pur trattandosi di una qualità che dovrebbe valere sia per i nostri compatrioti che per gli stranieri. È vero che non bisogna abusare nemmeno di questo strumento perché se chiunque ha avuto problemi con la giustizia (e, come si suol dire, ha pagato il suo debito) o li ha in corso (ma non è stato ancora condannato in via definitiva) dovesse essere bandito da troppe attività economiche, la conseguenza inintenzionale di tale ostracismo sarebbe che l’unico rifugio per costui rimarrebbe l’economia illegale. Tuttavia, nessuno ammetterebbe che le ’ndrina di Reggio o il mandamento di Porta Nuova a Palermo possano essere soci di una banca italiana o la holding familiare di Assad azionista di una nostra industria delle telecomunicazioni.
Quest’ultimo esempio ci porta all’altro grande ostacolo alla libera circolazione dei capitali, la sicurezza nazionale. Anche se opera nell’ambito della piena legalità, è normale che la cinese Shenjang, che costruisce i più temibili aerei da combattimento dell’aviazione cinese, non diventi azionista di industrie della difesa italiane o che la National Iranian Oil Corp. non possa lanciare un opa su Eni. Ahimè, gli Stati ostili esistono e non si può far finta di vivere in un Paradiso libertario. La qual cosa, peraltro, non vuol dire che alcune industrie debbano rimanere di proprietà dello Stato: negli Stati Uniti la Lookched Martin e la Northrop sono in mano ai privati, ad esempio. Tuttavia, fatte salve queste eccezioni, per il resto le acquisizioni dall’estero portano tre benefici essenziali. Il primo è che affluiscono capitali nelle tasche dei vecchi proprietari italiani i quali, se vendono, pensano che il prezzo sia per loro conveniente e che possa essere reinvestito in modo più profittevole in altre imprese.
Semmai il fattore critico è che molti azionisti italiani alienano le azioni e si mettono in pensione, affidando il ricavato a qualche capace ed affabile private banker svizzero: lo spirito imprenditoriale, però, non lo si crea con la golden share, purtroppo. Financo se il paese di appartenenza dell’acquirente fosse protezionista, tanto peggio per lui: il mondo è pieno di opportunità di investimento per italiani con soldi da spendere. Il secondo è che gli stranieri difficilmente vengono per “distruggere” il nostro patrimonio aziendale, ma per valorizzarlo, aggiungendo in più know-how sia manageriale che tecnologico. Se si vedono le ultime grandi società acquisite da stranieri, da Bulgari a Parmalat, da Loro Piana ad Avio, mi sembra che prosperino tutte e altre son state salvate dalla rovina, come Indesit. Infine, il forestiero è meno influenzabile dalla politica nostrana e le sue decisioni non sono dettate da esigenze elettorali. Il problema per l’Italia non è di avere troppi investitori che vengono da Oltralpe, semmai il contrario, ed è per questo che con Amalia non possiamo che auspicare: “Magari ci si comprassero!”.