Sì: nazionalizzare non è uno scandalo

Claudio Cerasa

Se non ci sono alternative al salvataggio di Mps, ci sono alternative su cosa deve fare un governo quando entra in banca. Perché l'intervento pubblico funziona solo se lo stato si comporta da capitalista, e non da sindacalista

Questa mattina sapremo con certezza se sarà riuscito il tentativo di Mps di trovare sul mercato i cinque miliardi di euro necessari per salvare la banca più antica del mondo attraverso un aumento di capitale. Ma a meno di miracoli che non ci saranno, la strada per la banca senese è ovviamente segnata e coincide con una parola magica che da molti anni era sparita dal dizionario della politica economica italiana: la nazionalizzazione. Ieri mattina il governo ha ottenuto in Parlamento il via libera al piano di salvataggio per utilizzare fino a venti miliardi di euro di debito pubblico in più per intervenire sulle banche. Ma più che occuparci delle questioni tecniche del salvataggio di Mps c’è un dato culturale importante da notare: l’aumento di capitale che verrà messo in campo dal Tesoro, su Mps, non sarà solo un atto utile a testare la solidità del nostro sistema bancario, ma ci aiuterà a realizzare uno stress test sullo stato di salute della cultura liberale italiana. Il punto di partenza non è se sia giusto o no che lo stato intervenga per salvare una importante banca italiana, dato che l’ingresso dello stato nelle banche è ormai prassi consolidata, in situazioni di crisi, anche nelle grandi culle del pensiero liberale (in seguito alla crisi dei subprime, nel 2007 il governo inglese è intervenuto direttamente in Royal Bank of Scotland, di cui lo stato britannico ha acquisito fino all’83 per cento del capitale, in Lloyds Banking Group, di cui lo stato ha acquisito il 41 per cento, e in Northern Rock, poi rivenduta nel 2011 a Virgin; mentre in America nel 2008 l’Amministrazione federale ha acquisito significative partecipazioni azionarie in nove grandi banche americane, tra cui Citigroup, Bank of America, JP Morgan Chase).

 

La nazionalizzazione non è dunque uno scandalo in sé (chiedere alla Chrysler salvata magnificamente da Obama prima di essere venduta a Sergio Marchionne) ma il vero punto è come si comporta uno stato quando mette piede in una banca. Proviamo ad arrivare al succo della questione attraverso una domanda e una metafora: riuscirà il governo italiano a seguire con Mps il modello del sussidio di disoccupazione e non il modello della cassa integrazione? Detto in altre parole: riuscirà lo stato a entrare in Mps comportandosi da azionista vero, dandosi un tempo limitato d’azione, mettendo da parte il vecchio management e utilizzando i soldi pubblici non come una droga utile a comprare tempo (modello cassa integrazione) ma come un sussidio per tornare sul mercato, come una grande occasione per ristrutturare un’azienda che non funziona più e che dunque va resa appetibile per poi essere rapidamente venduta al migliore offerente?

 

L’ingresso dello stato in una banca o in un’azienda ha senso se lo stato segue i princìpi del capitalismo e se l’interventismo non viene trasformato in una svolta culturale (il mercato non funziona, bisogna tornare allo statalismo, viva l’Iri, aridatece Beneduce) ma viene vissuto come un passaggio di transizione da una fase all’altra del mercato. Più che recriminare sulle responsabilità del passato (era giusto provare a trovare soldi sul mercato, il mercato non ha risposto, è giusto che intervenga lo stato per evitare un fallimento che costerebbe più di quanto costa oggi il salvataggio) una classe dirigente autonoma e con la testa sulle spalle dovrebbe vigilare su questo ricordando la lezione americana e inglese che suona più o meno così: le nazionalizzazioni che funzionano sono quelle che cominciano con una scadenza e sono quelle in cui lo stato agisce seguendo più la logica della competizione che quella della concertazione. In America l’intervento fatto da Obama sull’automobile aveva un obiettivo dichiarato e credibile che era quello di uscire il prima possibile dal management. Lo stato inglese, d’altra parte, è riuscito a rivendere dopo tre anni la Northern Rock. Ma per farlo, prima, si è dovuto comportare da azionista vero.

 

Anche a costo di rivoltare come un calzino la banca. Anche a costo, come è successo, di licenziare un terzo del personale. Il passaggio è delicato perché non si tratta soltanto di una questione legata al rispetto della dottrina liberale (tra l’altro che meraviglia il Movimento 5 stelle che dopo aver accusato la Kasta di non voler fare gli interessi dei piccoli risparmiatori ora accusa la Kasta di utilizzare denaro pubblico solo per salvare la banca della Kasta della sinistra). E’ delicato, il passaggio, perché una banca drogata dallo stato, che non rispetta i princìpi base del capitalismo e non si occupa di rimettere ordine in un’azienda in difficoltà, non fa solo il male di quell’azienda, ma mette in una posizione di svantaggio competitivo tutte quelle banche che senza aver avuto bisogno dello stato sono riuscite a galleggiare e a crescere senza utilizzare i soldi dei contribuenti. In un mercato libero e aperto lo stato serve. Non per superare il mercato. Ma per permettere al mercato di tornare a funzionare come dovrebbe. Mps non è un fallimento di mercato, ma è il fallimento di una banca gestita per anni dalla politica e con criteri politici. E se lo stato entra e non esce rapidamente non farà altro che riprodurre le condizioni che hanno portato Mps al fallimento. Ne vale la pena?

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.