Nazionalizzare non significa trasformare il Montepaschi in Almaviva
L’intervento pubblico funziona solo se lo stato si comporta da capitalista. Esempi e rischi
Roma. Prendiamo Poste italiane, da sempre controllate dallo stato che oggi, nonostante il primo collocamento in Borsa, ne detiene il 60 per cento. E’ il più grande datore di lavoro italiano con 145 mila dipendenti (Fca ne ha oltre 300 mila ma per tre quarti all’estero), il che negli anni 90 lo ha portato sull’orlo della bancarotta: i costi del personale assorbivano il 93 per cento delle risorse, la produttività per addetto si era ridotta al 24 per cento. Trasformate (dal governo di Romano Prodi) in spa e nel 1998 nominato amministratore delegato Corrado Passera le Poste affrontarono una drastica ristrutturazione, con tagli al personale e licenziamenti tra i manager, e una durissima opposizione sindacale. I benefici del piano Passera furono raccolti dal successore Massimo Sarmi, molto più conciliante con i sindacati, ma da allora i bilanci sono in attivo e l’azienda è tra i migliori operatori postali europei. Stessa sorte per le Ferrovie dello stato, sotto il ministero dei Trasporti fino agli anni 80: nonostante tecnologie d’avanguardia simboleggiate dal Settebello e dal Pendolino, le Fs furono bersagliate da scioperi, disservizi, scelte manageriali sbagliate. La trasformazione in ente economico con obiettivo il profitto, e successivamente in spa, la divisione tra rete e servizi e soprattutto l’alta velocità e le frecce ne hanno fatto un’azienda profittevole, con 9 miliardi di ricavi e 800 milioni di utile nel 2016, al punto che l’ad Renato Mazzoncini ha lanciato un ambizioso piano decennale di 94 miliardi d’investimento, prevede l’espansione nelle strade (Anas), nelle merci, nel trasporto regionale – tallone d’Achille del gruppo – all’estero (con quota di fatturato in crescita dal 4 al 23 per cento), fino alle metropolitane, con l’ingresso nella linea 5 di Milano e l’offerta pendente per l’Atac di Roma. Che però la giunta grillina al potere vuol tenersi stretta, tutta a capitale comunale e dunque benecomunista, quasi fosse una merce pregiata e perciò inalienabile.
L’Atac è pregiata, certamente lo è per gli 11.900 dipendenti, circa un quinto di quelli delle Fs, che alle amministrative hanno votato all’80 per cento per Virginia Raggi sindaco. L’Atac “vanta” 150 milioni di deficit annui, una media lavorativa di 700 ore per dipendente contro le 1.200 dell’Atm di Milano, rispetto alla quale incassa il 38 per cento degli introiti. In compenso ha dirigenti retribuiti 350 mila euro e una decina di sigle sindacali che producono scioperi normalmente di venerdì, il giorno nel quale si realizza anche il 70 per cento dei giorni di malattia. Ecco, in queste cifre c’è in parte la dimostrazione dell’assunto dell’editoriale del Foglio di ieri sul salvataggio delle banche: nazionalizzare non è uno scandalo, a condizione che lo stato si comporti da capitalista e non da sindacalista.
Il consociativismo e i privilegi dell’Alitalia statale li paga, altro esempio, anche l’Alitalia attuale che neppure gli emiri di Abu Dhabi attraverso Etihad riescono a risanare, tanto sono lunghe le scie di quelle abitudini (e delle cose ancora da fare, in Italia). E le pagano anche i contribuenti italiani, visto che il “fondo volo” delle pensioni di piloti e hostess grava, secondo i calcoli dell’Inps, per il 95 per cento sulla fiscalità generale mentre nel 2015 ancora 3 mila cassintegrati Alitalia percepivano assegni mensili da 2 mila a 30 mila euro lordi. Così se il Tesoro entrerà nel Monte dei Paschi di Siena con lo spirito del capitalista – a cominciare dai suoi 26 mila dipendenti e 2.600 filiali, terze dopo Intesa e Unicredit; un rapporto di 10 dipendenti per filiale, la metà di Intesa Sanpaolo – ripercorrerà le orme del brillante stato bancario di Comit e Credito italiano. Diversamente c’è il destino stile Almaviva, l’improduttiva e pachidermica azienda di call center dove il governo si è fatto l’altro ieri “garante” (in che senso?) di uscite volontarie e cassa integrazione. Ricevendone ieri il sì dei sindacati di Napoli, e il no di quelli di Roma; sorge il sospetto del ricatto congiunto azienda-sindacalismo di base. Vogliamo trasformare Siena, Vicenza e dintorni in una gigantesca Almaviva?