Oltre i voucher. Il problema del lavoro che c'è ma non si vede
La popolazione non occupata è pari al 62,8 per cento della popolazione totale. E’ un dato rilevante che può nascondere diversi fenomeni
Roma. La polemica sui buoni lavoro (i voucher) di cui sui media si discute da settimane – a uso strumentale della Cgil che propone un referendum abrogativo sullo strumento, in chiave anti governativa – ha superato il limite di tempo e spazio che dovrebbe essere concesso a una questione rilevante ma, a conti fatti, marginale per il mercato del lavoro nazionale – parlando di voucher parliamo dello 0,23 per cento rispetto al costo del lavoro complessivo annuo in Italia (non di occupati). Il problema più generale e grave – perché sistemico e radicato – lo indica l’Istat nell’annuario statistico 2016 appena pubblicato.
In Italia lavora circa un terzo della popolazione residente, ovvero il 37 per cento, pari a 22 milioni di persone su 60,4 milioni. Il dato ovviamente andrebbe depurato: nei 60 milioni di abitanti sono compresi anche coloro che non sono in età da lavoro perché troppo giovani o troppo anziani oppure si comprendono anche altre categorie come, ad esempio, i disabili che non possono lavorare e percepiscono sussidi. Parallelamente è interessante notare che, mentre circa un terzo della popolazione in età lavorativa (15-64 anni) è occupata, poco meno, il 23,2 per cento è inattiva – pari a circa 14 milioni di persone – o non lavora e ha smesso di cercare lavoro.
E’ in queste cifre percentuali che si annida una gamma di storture del lavoro in Italia. Ed è a partire da qui che si possono indicare alcune direttrici-cause-motivazioni da sondare con dati più mirati rispetto allo spaccato statistico a disposizione. Si deduce che la popolazione non occupata è pari al 62,8 per cento della popolazione totale (si comprendono: disoccupati, 5 per cento, inattivi in età da lavoro, 23,2 per cento, e inattivi in età non da lavoro, 34,6). E’ un dato rilevante che può nascondere diversi fenomeni. Il primo sta nella quota di lavoro nero o sommerso, quello di lavoratori indipendenti o sotto padrone che dichiarano di non lavorare ma lavorano, e fanno parte di un sottobosco di attività e di persone attive che non rientrano nei circuiti legali, quelli regolarmente censiti e quindi, si presume, tassati. Con un danno relativo per l’erario e quindi per la collettività. Sono lavoratori invisibili che non generano gettito e – al netto delle nuovi parametri statistici Eurostat che cercano di tenere conto dell’economia sommersa – non generano (formalmente) nemmeno pil.
Dopodiché c’è un’altro aspetto da considerare in quella percentuale, quello delle persone che faticano a trovare un impiego o a fare il loro ingresso nel mercato del lavoro (oppure che faticano a tentare un re-ingresso dopo essere usciti temporaneamente per cause varie). Può succedere ai neolaureati o plurilaureati che hanno rinunciato e non riescono a trovare un impiego o hanno rinunciato a farlo per ragioni personali o di percorsi di studio non (più) richiesti dal mercato. E poi, come spesso scritto anche da questo giornale, ci sono i giovani che lavorano all’estero – i ragazzi in età da post programma Erasmus – e quindi non rientrano nelle statistiche eppure lavorano ma lo fanno altrove fuori confine, e vengono inseriti nella casella dei non occupati. Il problema indicato dai dati dell’Istat è che il lavoro in alcuni casi non c’è ed è difficile da trovare mentre in altri il lavoro c’è eccome ma non si vede né si sente nelle statistiche e nelle casse pubbliche perché è totalmente fuori dai radar. C’è dunque un problema dei problemi. Sostanziale e più vasto della questione dell’uso – o meglio dell’accelerazione nell’uso (abuso, se proprio si desidera) – dei voucher. Strumenti, questi ultimi, che comunque nel loro piccolo contribuiscono a scoraggiare il lavoro sommerso in modo più efficace di altri sistemi di retribuzione. E proprio per loro natura, dato l’obbligo dei requisiti di tracciabilità.