Volete il reddito d'inclusione? Allora rinunciate all'art. 18 e agli altri lacci
Il punto cruciale sta nella natura del trade off: un mercato del lavoro flessibile giustifica lo sforzo di tendere una rete di protezione a spese dello stato
Roma. Sono tutti pazzi per il reddito d’inclusione. L’introduzione di uno strumento universale di contrasto alla povertà può essere parte di una più ampia risposta alla crisi sul piano economico e al populismo su quello politico. Altri paesi si stanno muovendo, o si sono già mossi, in questa direzione: la Finlandia ha appena avviato un esperimento su 2.000 cittadini, che per due anni riceveranno dallo stato 560 euro al mese. I beneficiari non hanno alcun obbligo, neppure di cercare un lavoro durante il periodo in cui percepiranno tale contributo, ma dovranno detrarlo da ogni altro beneficio a loro accessibile. L’obiettivo di Helsinki è – letteralmente – capire l’effetto che fa: verificare pro e contro della proposta, pur nella consapevolezza che il comportamento dei cittadini può cambiare a seconda che il reddito sia garantito per un periodo limitato di tempo (due anni in questo caso), oppure a tempo indefinito. Questo – è il caso di dirlo – “esperimento sociale” si inserisce nel tentativo più ampio di rispondere a una fase di cambiamenti rapidi e profondi, che spesso impone costi di aggiustamento, senza necessariamente rinunciare ai benefici dell’innovazione e della globalizzazione.
Da qui nasce lo sforzo di ripensare i sistemi di welfare col duplice obiettivo di tutelare chi si trova in condizioni di indigenza e di aiutare quanti hanno perso il lavoro, anche attraverso percorsi formativi ad hoc. Un welfare moderno ed efficiente deve però guardarsi da due incentivi perversi. Il primo effetto perverso è quello di scoraggiare la ricerca di un’occupazione: d’altronde se il salario te lo paga la collettività senza chiederti nulla in cambio, perché dovresti prenderti il disturbo di lavorare? I sussidi concessi a vario titolo, insomma, devono essere finalizzati a integrare il reddito, specialmente nei momenti in cui si riduce o viene meno, non a sostituirlo. Per questo – più ancora del salario d’inclusione – l’ingranaggio chiave sono le politiche attive, uno dei pilastri del Jobs Act. I pasti non devono essere gratis, insomma. Il secondo rischio è anche più insidioso, perché ha una natura eminentemente politica. Se infatti la scelta è quella di costruire una rete di salvaguardie attorno all’individuo, che vada dal reddito minimo alle politiche attive, allora occorre riconoscere parallelamente che le “vecchie” forme di tutela – su tutte, l’articolo 18 – oramai sono obsolete. Infatti, proprio grazie alle nuove forme di supporto dell’individuo, diventa socialmente e politicamente possibile alleggerire la regolamentazione del mercato del lavoro, rendendolo più fluido e reattivo.
In altre parole, l’eventuale introduzione del reddito d’inclusione, il potenziamento degli strumenti di contrasto alla povertà e il rafforzamento delle politiche attive non possono prescindere da una ancora più convinta difesa delle riforme degli ultimi anni: dal superamento dell’articolo 18 al nuovo schema di tutele crescenti fino ai voucher. In un certo senso, questo scambio riflette una assunzione di responsabilità da parte dello stato: fino a ieri, la difesa del lavoratore veniva esternalizzata alle imprese, prima mettendo vincoli fortissimi al licenziamento, e poi attraverso meccanismi di tutela del posto del lavoro quali la cassa integrazione. Il baricentro si sposta ora verso un ruolo – appunto – attivo delle istituzioni. Il punto cruciale sta dunque nella natura del trade off: un mercato del lavoro flessibile giustifica lo sforzo di tendere una rete di protezione a spese dello stato. Per converso, è proprio tale rete a legittimare il massimo della flessibilità. Se questo è vero, allora i referendum promossi dalla Cgil contro il Jobs Act non sono coerenti, ma vanno nella direzione opposta rispetto a un reddito d’inclusione ben concepito, perché guardano a un modello completamente diverso: l’economia chiusa contro la società aperta. E’ perfino banale ricordare che la ricchezza, per essere redistribuita, deve prima di tutto essere prodotta. La libertà economica non è la sorella povera della pace sociale: è il basamento su cui poggia l’intero edificio.