La Corte del rating
La politica trascura il mercato. Ma non potrà ignorare il giudizio sul rating di Dbrs (dopo la Consulta)
Roma. Il mondo della politica è concentrato su due decisioni della Corte costituzionale da cui dipendono le sorti della legislatura, quella di oggi sull’ammissibilità dei referendum della Cgil sul Jobs Act e quella del prossimo 24 gennaio sulla legge elettorale, ma è molto distratto – per non dire completamente disinteressato – su un responso non meno importante per l’economia italiana, che arriverà fra queste due date, tra l’altro in un giorno non piacevole per gli scaramantici, venerdì 13.
Si tratta della decisione di un’entità sconosciuta ai più, l’agenzia canadese Dbrs, che venerdì prossimo emetterà un giudizio sul rating sovrano dell’Italia, con possibili ricadute negative sul sistema bancario che di problemi ne ha già abbastanza. La Dbrs è molto meno nota delle tre sorelle del rating, Fitch, Moody’s e Standard and Poor’s, ma il suo giudizio vale quanto le altre, visto che è una delle quattro istituzioni utilizzate dalla Banca centrale europea (Bce) per valutare il merito di credito. Ma per l’Italia, attualmente, il giudizio di Dbrs è il più importante perché finora è stata la più generosa, l’unica ad assegnare un rating nella fascia alta (A low), uno scalino prima della fascia “B”. Siccome la Bce considera il rating più alto, vuol dire che grazie a questa ultima A, alle banche italiane viene applicato un “haircut” (un taglio) molto basso ai bond che le stesse banche usano come “collaterale” (garanzia) per ottenere finanziamenti dall’Eurotower. In pratica, se Dbrs dovesse tagliare il rating italiano, per le banche aumenteranno i costi di finanziamento. E naturalmente, a cascata, le conseguenze si ripercuoterebbero sul resto dell’economia. Il problema è che anche la generosità dei canadesi non è infinita, già ad agosto Dbrs aveva messo sotto osservazione l’Italia con outlook negativo, il primo passo per un taglio del rating.
A preoccupare l’agenzia di Toronto erano l’incertezza politica legata all’esito del referendum costituzionale, le fragilità del sistema bancario e una ripresa economica lenta. Tutti problemi che non sono stati superati e che, anzi, si sono per certi versi aggravati. Il giudizio di Dbrs sarebbe dovuto arrivare quest’autunno, ma l’agenzia ha deciso di estendere il processo di revisione sul rating sovrano fino a dopo il referendum costituzionale del 4 dicembre. Prima della consultazione l’agenzia di rating canadese si era espressa a favore della riforma: “Sarebbe il miglior risultato da un punto di vista del credito”, diceva il responsabile dei rating sovrani di Dbrs Fergus McCormick.
Se ora la bocciatura del referendum spingerà Dbrs al taglio del rating, per le banche italiane – già indebolite dalla crisi e alle prese con la scarsa redditività e la montagna di crediti deteriorati – aumenteranno i costi di finanziamento. Con un downgrade lo sconto sui titoli offerti in garanzia alla Bce triplicherebbe. Come riporta il Financial Times, secondo le proiezioni di Rabobank, le banche italiane dovranno mettere sul piatto della bilancia altri 4 miliardi di euro in titoli di stato. Il downgrade non è certo, anche perché dopo il referendum Dbrs ha dichiarato che c’è stata una “battuta d’arresto per l’agenda delle riforme”, ma la rapida “formazione del governo Gentiloni è rassicurante dopo le dimissioni di Renzi”. Dice Fabio Fois, analista di Barclays: “Dipende da cos’hanno in mente all’agenzia: se conta il risultato del referendum, Sì o No tout court, o se osservano le ramificazioni politiche del risultato ovvero la transizione di governo post referendum. In quest’ultimo caso non è così male perché è stato fatto un governo molto in fretta e in continuità”.
Ma restano le criticità che possono spingere a un taglio del rating, dalla traiettoria crescente del debito pubblico allo stato di salute delle banche passando per la bassa crescita, e la politica non sembra occuparsene. Il disinteresse per il giudizio dei mercati, contrapposto all’estrema attenzione per le sentenze della Consulta su referendum e legge elettorale, è d’altronde frutto dello stesso strabismo che ha tenuto impegnato il precedente governo sulle pur necessarie riforme istituzionali, trascurando però quelle economiche (anzi, sfruttando gli esigui spazi di bilancio per la battaglia referendaria). Alla fine non si sono ottenute né le une né le altre e la realtà economica sta presentando il conto: sullo sfondo si intravede la fine di una stagione di politica monetaria che ha protetto il debito pubblico italiano. La Bce ha comprato per noi un po’ di tempo, e ora è quasi scaduto.