Paper per i nostalgici della lira: oggi svalutare è più inutile di prima
Che l’uscita dalla moneta comune avvenga per decisione della Germania o per volontà dell’Italia, cosa ci guadagnerebbe la nostra economia?
Roma. L’intervista rilasciata al Corriere della sera da Roland Berger, in cui il consigliere di Angela Merkel suggerisce un’uscita della Germania dall’euro, ha rivitalizzato le aspirazioni del fronte no-euro italiano. Seppure le motivazioni dell’Eurexit tedesco esposte da Berger siano di segno opposto – il consigliere della Merkel sostiene che le rivalutazioni spingano verso maggiore produttività, mentre molti in Italia sono convinti che siano le svalutazioni a garantire guadagni di competitività – ciò che conta per i sovranisti italiani è che si vada verso uno smantellamento della moneta unica e, anzi, il fatto che possa avvenire con un’uscita “dall’alto” della Germania renderebbe tutto meno complicato. Che l’uscita dalla moneta comune avvenga per decisione della Germania o per volontà dell’Italia (magari dopo un doppio referendum “sovrano”), cosa ci guadagnerebbe la nostra economia? La tesi principale dei nostalgici della Lira è abbastanza semplice, è quella delle svalutazioni competitive: se tornassimo sovrani della nostra moneta potremmo svalutarla per favorire le esportazioni e di conseguenza produrre crescita economica e occupazionale.
Il problema di questa strategia di politica monetaria è che non funziona proprio come si vorrebbe. L’Italia, tra l’altro, ha usato per molto tempo le svalutazioni per sopperire o aggirare le proprie debolezze strutturali, ma queste non hanno prodotto i risultati auspicati. Proprio in questi giorni, tre economisti del think tank brussellese Bruegel (con un post dal titolo “The Italian Lira: the exchange rate and employment in the Erm”) hanno analizzato cos’è accaduto in vent’anni di cambi flessibili: dal 1979, anno d’inizio del Sistema monetario europeo (Sme), al 1999, anno di entrata in vigore dell’euro, la lira si è svalutata complessivamente del 53 per cento rispetto al marco tedesco senza portare alcun beneficio consistente per l’occupazione, la competitività e la crescita economica. Certo, si può dire che questo è ciò che è accaduto in passato, ma che stavolta la situazione è differente. E in effetti è così, ma nel senso opposto: se storicamente le politiche di deprezzamento del cambio sono state in diversi casi associate a un aumento della crescita, ora questo effetto è molto più debole rispetto a prima a causa della sempre maggiore internazionalizzazione della produzione e del commercio. Il Financial Times lo scorso anno ha analizzato l’effetto del deprezzamento del cambio di 107 mercati emergenti sulla bilancia commerciale: “Una valuta più debole non ha portato ad alcun aumento in termini di volumi dell’export. Tuttavia ha portato a una diminuzione dei volumi dell’import di circa lo 0,5 per cento per ogni punto percentuale di svalutazione rispetto al dollaro”.
Questa dinamica non vale solo per le economie emergenti. In uno studio della Banca mondiale (dal titolo “Depreciations without Exports?”), dopo aver analizzato 46 paesi sviluppati tra il 1996 e il 2012 – tra cui anche l’Italia – gli economisti Swarnali Ahmed, Maximiliano Appendino e Michele Ruta arrivano alla conclusione che, a causa della sempre maggiore integrazione in “catene globali del valore” (global value chains) gli effetti delle svalutazioni sull’export sono sempre più ridotti: “Se i paesi sono sempre più integrati nei processi globali di produzione, una svalutazione migliora la competitività solo di una frazione delle esportazioni dei beni finali”. Ciò vuol dire che potremmo controllare il prezzo della nuova lira, ma non quello di beni e servizi prodotti in una catena globale del valore. Il risultato per molte imprese sarebbe paradossale: i fornitori stranieri pagherebbero di meno la stessa quantità di beni italiani (facendo quindi maggiori profitti), mentre per le imprese italiane aumenteranno i costi delle importazioni (materie prime) senza riuscire ad aumentare le esportazioni.