Per Intesa è meglio comprare Mediobanca anziché Generali?
Strategie alternative (e di mercato) per un’operazione iniziata male, un po’ all’italiana, ma ancora da vedere
Roma. L’avventura di Intesa Sanpaolo alla conquista delle Assicurazioni Generali è iniziata nel peggiore dei modi con la fuga di mezze notizie lo scorso fine settimana e la successiva mancanza di argomentazioni sulle sinergie e sulla potenziale creazione di valore. A ciò s’aggiunge l’opposizione fulminea al takeover da parte della compagnia triestina con (o senza) il benestare del socio di controllo Mediobanca – che incredibilmente ieri non è stata convocata in Consob per chiarimenti contrariamente al suo primo azionista (Unicredit) e agli altri attori coinvolti.
A molti osservatori l’operazione di Intesa sembra assai fumosa al momento. E anzi – nell’assenza di visibilità sul progetto finale – s’avanza l’idea che sarebbe più logico per la banca guidata da Carlo Messina unire le forze con quella di Alberto Nagel, nonostante una rivalità storica e molto aspra.
Il movente dichiarato dell’operazione coordinata da Intesa sarebbe una vaga difesa dell’italianità di Generali, guidata dal francese Philippe Donnet, ex di Axa, in opposizione a un ipotetico assalto della finanza d’oltralpe. La stampa finanziaria (Sole24Ore e MF/Milano Finanza) ha avallato questa visione producendo elogi della “difesa della italianità” di Generali – che in tempi di sindrome esterofoba appare una linea più filogovernativa che di mercato. Intesa inoltre vorrebbe procedere a un joint takeover insieme la tedesca Allianz. Il che non è esattamente una tutela del tricolore, come viene dipinta, dato che può essere prodromica alla cessione delle attività tedesche o francesi di Generali ad Allianz per rientrare in parte dalla spesa, come sostiene Jefferies, una banca d’affari americana. L’intento di Intesa pare, secondo alcuni osservatori, quello di risultare impegnata in un’acquisizione importante con un pesante impatto sul capitale per evitare di essere inseguita dagli azionisti, i fondi d’investimento e la Fondazione Cariplo, ai quali ha promesso una generosa politica di dividendi (3 miliardi nel 2016, 4 miliardi nel 2017). E’ una strategia che sta perseguendo con credibilità da cinque anni ma che ora fatica forse ad assicurare. La felice stagione di alti pagamenti per gli azionisti è finora stata finanziata anche attraverso la vendita di asset – Setefi (gestione di pagamenti elettronici), ceduta per un miliardo di euro circa a un consorzio di fondi, e la recente dismissione della piattaforma di fondi Allfunds costruita con la spagnola Santander che potrebbe finire allo stesso consorzio per 2 miliardi – e potrebbe avere vita breve. La soluzione di un prestito pubblico per il sofferente Monte dei Paschi e un piano industriale apprezzato dal mercato per la problematica Unicredit che mira alla ristrutturazione – rarità nell’industria bancaria italiana che affronta i problemi iniettando capitale senza però risolverli davvero – ha fatto emergere i punti deboli di Intesa. Quale pretesto migliore della nobile difesa della italianità della prima assicurazione nazionale, nata trent’anni prima dell’Unità sotto il vessillo dell’aquila asburgica, per mascherare una motivazione ben più pratica?
Le sinergie operative di Intesa con Generali, che pure ha un network efficiente in Italia, Germania e Francia e una massa notevole di risparmi in gestione (470 miliardi) sono poi limitate. Il modello della bancassurance è passato di moda e non si trovano facilmente al mondo delle banche che contemporaneamente fanno l’assicuratore, e viceversa. Nel 2008 Allianz ha venduto Dresner Bank a Commerzbank acquisendo da quest’ultima le attività di risparmio gestito. In fondo quello del banchiere e dell’assicuratore sono mestieri con logiche inverse: il banchiere presta denaro affinché un privato costruisca progetti profittevoli e restituisca il prestito pagando gli interessi, l’assicuratore invece riceve denaro dall’assicurato il quale potrà avere indietro una certa somma superiore all’esborso iniziale se si verificano alcune condizioni, i sinistri. Nel merito di Intesa e Generali si avrebbe una sovrapposizione nel ramo delle assicurazioni sulla vita, dove entrambe sono forti, e potrebbe sollevare perplessità dall’Antitrust: nel ramo vita Intesa ha una quota di mercato superiore al 18 per cento, Generali del 16 per cento, insieme supererebbero di molto Unipol che è leader nel segmento con il 22 per cento (classifica 2015 dell’Associazione delle assicurazioni italiane). Se si unissero avrebbero però un vantaggio, ad esempio, nel sommare le masse di risparmio gestito: Intesa-Generali arriverebbero a maneggiare 501 miliardi, arrivando tra le prime 40 società globali.
Tuttavia anziché impelagarsi in quel di Trieste, un’alternativa strategica per Intesa, polo d’interessi cattolici e lombardi, sarebbe quella di comprare l’arcinemico Mediobanca, “tempio” della finanza laica e passe-partout per blasonate istituzioni estere in Italia. Probabilmente da entrambe le fazioni si taglierebbero un braccio pur di evitarlo ma l’ipotesi teorica non è da trascurare. Secondo Equita Sim, Intesa “potrebbe acquisire l’8 per cento di Unicredit in Mediobanca (di cui è primo azionista, ndr) con il successivo lancio di un’offerta su Mediobanca stessa”. Per la società di consulenza presieduta da Alessandro Profumo il risultato per Intesa è quello di diventare socio di Generali col 13 per cento (quota ora in mano a Mediobanca) per poi “coaugulare una minoranza di blocco in chiave anti scalata”. In realtà non è rilevante il nome del primo socio per scongiurare un’aggressione: le Generali possono in ogni caso essere oggetto di un’acquisizione straniera e, alla lunga, una difesa potrebbe rivelarsi inutile. Generali è relativamente piccola rispetto ai concorrenti – capitalizza 25 miliardi rispetto ad Axa che ne capitalizza 55 miliardi e Allianz che ne capitalizza 70 miliardi – ed è vulnerabile anche a causa della pervicacia con cui Mediobanca negli ultimi anni ha evitato di chiamare un aumento di capitale per non diluirsi e quindi non perdere influenza sul crocevia del capitalismo italiano. L’ipotesi di una fusione Intesa-Mediobanca da un punto di vista industriale sta nel fatto che la banca di Messina si troverebbe a gestire un business più affine al suo se si unisse con quella di Nagel, e viceversa. Nel risparmio gestito Intesa è molto superiore con una massa di 315,2 miliardi di euro mentre Mediobanca con la boutique Esperia ne gestisce 17. Malgrado l’Italia abbia una ricchezza privata molto grande Intesa è al 55esimo posto su 500 società globali monitorate da Willis Towers Watson. Unire le forze non servirà a recuperare posizioni – la francese Amundi (Crédit Agricole) ha appena comprato Pioneer da Unicredit ed è entrata tra i primi 10 operatori globali – ma darebbe sinergie. Nella consulenza Mediobanca è leader (35 accordi per 23 miliardi con una quota di mercato indicativa del 34 per cento) mentre Sanpaolo Imi è 20esima (30 deal per 3 miliardi con una quota del 4,9 per cento) nel 2016. Infine con la banca digitale di Mediobanca (CheBanca!) Intesa può avanzare nell’online banking e, specularmente, potrebbe apportare quella vasta clientela che a Piazzetta Cuccia manca. Sembra impossibile, ma quando i persiani premevano alle porte anche Atene e Sparta hanno unito le forze.