Quanto lo statalismo fa male al settore immobiliare. Uno studio
Tutti i danni causati da una goffa intromissione pubblica alla libertà di impresa nel mondo dell’edilizia
Al direttore - Se c’è un settore in cui l’intervento pubblico impera da sempre, quello è la proprietà immobiliare. La storia è piena di norme di ogni genere che, con le motivazioni più diverse, si sono preoccupate di variamente regolamentare, disciplinare, controllare, calmierare la libera dinamica di un comparto privato che non è mai stato considerato uguale agli altri, ma sempre bisognoso di maggiori… cure. Gli esempi sono tanti e le ragioni degli interventi vengono di volta in volta illustrate, ma quasi sempre a determinare l’intromissione pubblica (nelle sue varie espressioni territoriali, da quella europea a quella comunale) è un micidiale mix di statalismo, demagogia e superficialità, a volte alleati con specifici interessi corporativi. Dal punto di vista storico, a render chiara la situazione è sufficiente ricordare una pubblicazione realizzata qualche anno fa da Confedilizia e significativamente intitolata “In favorem inquilinorum”. Si trattava di un’analisi del “calmiere delle pigioni” e dei blocchi dei contratti di locazione, che rimandava alla tradizione dei provvedimenti vincolistici adottati nello Stato pontificio in occasione degli Anni Santi. Del resto, come ha rilevato Corrado Sforza Fogliani in un recente studio, i provvedimenti vincolistici – dei prezzi, dei canoni, dei contratti di locazione, delle esecuzioni di rilascio – durano da sempre (sono attestati già nel diritto etrusco) e, in epoca moderna, la sequela vincolistica nacque col blocco delle pigioni concesso il 29 aprile 1549.
Nel ventunesimo secolo, le forme di statalismo che intervengono sul settore immobiliare, e sulla proprietà in particolare, mutano in qualche caso in ragione del diverso contesto economico e sociale, ma traggono la propria linfa dalle medesime pulsioni regolatorie di un tempo. La prima questione è quella fiscale. Qualche tempo fa, Confedilizia ha formulato alcune domande alla politica. Una diceva: perché i proprietari di immobili sono (sostanzialmente) l’unica categoria di contribuenti tassata, oltre che sull’eventuale reddito prodotto dai loro beni, anche per il solo fatto di esserne proprietari (attualmente con l’Imu e la Tasi) e persino se gli immobili sono inagibili e inabitabili? Un’altra diceva: perché gli immobili situati nel comune nel quale il proprietario ha l’abitazione principale – e quindi, generalmente, quelli che il proprietario stesso non riesce ad affittare, e che sono quindi dei puri costi – sono soggetti a ben 5 imposte (Imu, Tasi, Irpef, addizionale regionale Irpef, addizionale comunale Irpef)? Più ampiamente, non può non porsi un problema di eccesso di presenza pubblica di fronte ad una tassazione patrimoniale – in quanto tale, per definizione, progressivamente espropriativa del bene – così esasperata, che si aggiunge peraltro ad una miriade di ulteriori forme impositive.
Ma non è solo la fiscalità a limitare il settore immobiliare. In materia di locazioni, ad esempio, dai provvedimenti del 1500 prima accennati sono trascorsi secoli, ma l’approccio è mutato non di molto. Solo nel 1992 l’Italia ha faticosamente superato, per il settore abitativo, la nota legge sul cosiddetto “equo canone”, risalente al 1978. E pochi sanno che quella legge è tuttora vigente – a quasi quarant’anni di distanza e nonostante cambiamenti epocali nelle dinamiche economiche e sociali – per gli affitti non abitativi. Con la conseguenza che, nel 2017, per la locazione di un negozio o di un ufficio, proprietario e inquilino sono ancora obbligati a stipulare contratti con durata minima di 12 o 18 anni, a seconda del tipo di attività svolta nel locale, e senza possibilità di modificare il canone (salvo l’aggiornamento Istat). Che dire, poi, delle locazioni turistiche? Sono ormai continue le normative, in particolare regionali, tendenti a scoraggiare – attraverso l’imposizione dei più vari adempimenti burocratici – l’affitto di case per vacanze o la loro condivisione. La regione Lombardia, ad esempio, ha deciso che un privato cittadino che voglia esercitare il suo diritto di proprietà su un appartamento – dandolo in affitto, come il Codice civile gli consente da alcuni decenni – può farlo solo se la casa ha i “requisiti minimi obbligatori” elencati in un allegato di tre pagine pubblicato all’interno di un regolamento di una ventina. Regolamento che prevede, a titolo di esempio, che in ogni “unità abitativa” debba essere presente la seguente dotazione: “1 batteria di pentole da cucina, 2 coltelli da cucina, 1 zuccheriera, 1 caffettiera, 1 scolapasta, 1 mestolo, 1 insalatiera, 1 grattugia, 1 spremiagrumi, 1 apribottiglie/cavatappi, 1 bricco per il latte, 1 bollitore elettrico per te (scritto così) e tisane, 1 pattumiera con sacchetti, 1 adattatore elettrico universale, 1 tovaglia, 2 canovacci da cucina”. E via elencando. Anche in questo modo, in Italia, la presenza pubblica si esprime nel settore immobiliare. E anche di questo si parlerà al “Festival della cultura della libertà” in programma sabato e domenica prossimi a Piacenza (programma e relatori al sito www.confedilizia.it).
Giorgio Spaziani Testa è Presidente di Confedilizia
tra debito e crescita