La logica di Intesa tra neo protezionismo e neo nazionalismo
Le vere ragioni industriali e politiche nascoste dietro l’offerta pendente di Intesa su Generali
Roma. Venerdì 3 febbraio a Londra Carlo Messina presenterà i risultati del bilancio 2016 e probabilmente sarà più chiaro se ha gettato il cuore oltre l’ostacolo con il progetto di diventare azionista di riferimento delle Assicurazioni Generali. I numeri contano tanto più se si tratta di una operazione di mercato (sarebbe un’Offerta pubblica di scambio da 15 miliardi di euro che potrebbe coinvolgere anche Mediobanca) e nello stesso tempo rappresenta una scelta di sistema, per difendere, consolidare, rilanciare un campione nazionale, tema sul quale insiste Giuseppe Guzzetti, azionista importante con la Fondazione Cariplo e molto attivo sul dossier, secondo fonti vicine. Quando Messina prese il comando il 29 settembre 2013, il gruppo era in pesante perdita (4 miliardi e mezzo di euro) e il piano triennale prevedeva di tornare a un profitto netto esattamente pari al buco con cui aveva aperto la sua gestione. Per il 2016 intende distribuire cedole agli azionisti per 3 miliardi. Vedremo gli obiettivi del prossimo anno, ma in ogni caso la banca è più solida, ha passato tutti gli stress test della Bce, è ben capitalizzata (38 miliardi), ha aumentato il valore in Borsa (da 1,5 a 2,5 euro per azione). Nel panorama deprimente del sistema bancario italiano, mentre la stessa Unicredit che capitalizza appena 18 miliardi ne deve trovare altri 13 per mettersi in sicurezza, Intesa Sanpaolo spicca come un’isola di stabilità. Il piano triennale prevedeva anche la cessione entro il 2017 dell’intero portafoglio di partecipazioni non strategiche, pari a circa 1,9 miliardi di valore di libro a fine 2013 (tra queste Alitalia, Telecom, Rcs, Risanamento e Ntv). Da poco erano già state dismesse le partecipazioni in Generali (valore di libro di circa 360 milioni), Pirelli, Sia e Union Life per un valore di libro complessivo di circa 620 milioni e una plusvalenza totale di circa 320 milioni. Messina, invece, ha cambiato strategia (se si esclude Telecom Italia). E oggi la banca si trova impegnata mani, piedi e capitali nella Rizzoli Corriere della Sera, avendo sostenuto Urbano Cairo (Gaetano Micciché, capo di Sanpaolo Imi, la banca d’affari del gruppo, è vicepresidente di Rcs). Mentre, invece di districarsi dall’intreccio di relazioni pericolose, entra in competizione con Mediobanca e vuole controllare le Generali.
C’è una spiegazione industriale alla quale ha fatto riferimento lo stesso Messina commentando i risultati dei primi nove mesi dell’anno scorso, parlando di Intesa come una delle banche “più efficienti d’Europa”.
“La nostra clientela – ha detto Messina – ci affida attività finanziarie per circa 850 miliardi di euro. Il modello di wealth management company verso il quale ci siamo orientati negli ultimi anni sta dando risultati significativi il 50 per cento dell’utile prima delle tasse deriva da queste attività”. In altre parole: oggi le banche non fanno profitti prestando denaro (tanto meno nell’èra dei tassi bassi se non negativi), ma gestendo la ricchezza, lo dimostrano chiaramente i campioni europei e americani. Le Generali hanno un grande patrimonio e una compagnia di assicurazione di per sé ha l’obiettivo di mettere al sicuro i risparmi dei clienti. La politica monetaria da una parte e la nuova rischiosità dei titoli di stato dall’altra, rendono tutto più difficile; il mestiere di banchiere e quello di assicuratore si avvicinano in modo impressionante. Qualche anno fa dominava la tesi contraria, cioè che bisognasse sciogliere l’intreccio banca-assicurazione dominante nel modello renano, ma la Bce non si era ancora incamminata in terra incognita. La svolta, però, va letta anche facendo ricorso alla cultura e alla politica. Ca’ de Sass, il palazzo ottocentesco al centro di Milano sede di Intesa Sanpaolo, è stata plasmata dall’uomo che ha creato il gruppo, partendo nel 1982 dal salvataggio del Banco Ambrosiano, ex cassaforte della curia milanese, portato al fallimento da Roberto Calvi “il banchiere di Dio” e della loggia P2. Da allora è un susseguirsi di aggregazioni successive: prima arriva la Cattolica del Veneto, poi la ricchissima Cariplo, la Cassa di risparmio delle province lombarde guidata da Giuseppe Guzzetti, segue la Banca Commerciale Italiana, infine nel 2006 il Sanpaolo di Torino. La cultura cattolico-lombarda si sposa con quella laica della Comit e dei torinesi, entrambe hanno come punto fermo il sostegno alle istituzioni economiche portanti (la Fiat per il Sanpaolo, l’industria del nord-est per Intesa). Bazoli, il Professore, è il nume tutelare, Guzzetti l’uomo della stabilità (dalle Fondazioni al fondo Atlante). Entrambi sono alternativi alla finanza alto-borghese rappresentata da Enrico Cuccia. Quando nel 2002 alla guida operativa arriva Corrado Passera (che aveva già lavorato all’Ambrosiano ai tempi della fusione con la Cariplo nel 1996), il gruppo partecipa a tutte le operazioni “di sistema” da Alitalia a Italo. Il suo successore Enrico Tommaso Cucchiani proveniente dalle assicurazioni (la tedesca Allianz) vorrebbe rappresentare una rottura, ma non funziona. E a mordere il freno sono proprio gli operativi come Messina, romano, cresciuto alla scuola di Bazoli (era entrato nell’Ambrosiano nel 1995 a soli trentatré anni dopo un apprendistato alla Bnl).
Il passaggio più delicato da gestire è stato chiudere con il modello duale. Il Consiglio di sorveglianza, che rappresentava gli azionisti e soprattutto le fondazioni principali (Sanpaolo, Cariplo e Cassa di Padova), era guidato da Bazoli, quello di gestione dall’economista Gian Maria Gros-Pietro. Lo scorso anno si crea un unico consiglio di amministrazione presieduto da Gros-Pietro; tra le lacrime viene ringraziato Bazoli che resta presidente emerito (non retribuito). “Ho compiuto un servizio al paese”, dichiara. Allo spirito di servizio fa riferimento il nuovo presidente citando il fondo Atlante per realizzare un salvataggio “di mercato” delle banche sull’orlo del fallimento. Lo stesso spirito riguarda l’operazione Generali di fronte al rischio che la sua debolezza renda la compagnia preda di acquisizioni sgradite? Certo, a Ca’ de Sass non condividono l’amaro declinismo lungamente declinato dalla Repubblica.
E qui veniamo allo Zeitgeist nell’èra Trump. Il pluto-populismo costringe tutti a cambiare le proprie strategie. Il ritorno del nazionalismo è allarmante, ma non per questo si debbono cedere le proprie risorse, ancor meno quando non prevale un progetto universalistico e multilaterale come la globalizzazione o l’Unione europea, bensì una guerra economica dove la legge la fa il più forte e il più imperioso.
Le recenti uscite del ministro Carlo Calenda s’inseriscono in questo quadro. Ma parla così in Francia anche Emmanuel Macron che vuole più Europa e più sovranità, più concorrenza e più campioni nazionali. “Il protezionismo è un’illusione – ha scritto sul Financial Times – ma dobbiamo essere pronti a difenderci. La sovranità non risiede in astratti princìpi. E’ quando i popoli compiono le loro scelte che diventano sovrani”.
tra debito e crescita