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Cari Grillo e Salvini, non si esce dall'euro senza uscire dall'Unione europea. Un gustoso studio della Bce

Marco Cecchini

Piaccia o no, l’adesione alla moneta unica è stata concepita come un matrimonio senza possibilità di divorzio

Roma. Beppe Grillo e Matteo Salvini non lo conoscono e se lo incontrassero probabilmente lo eviterebbero. Il maggiore esperto delle questioni giuridico economiche legate alla uscita di un Paese dall’euro si chiama Phoebus Athanassiou, è greco e di mestiere fa il consigliere capo del servizio legale della Banca centrale europea (Bce). Il suo saggio sul tema (“Withdrawl and expulsion from the Eu and the Emu, some reflections”), pubblicato nel 2009 nella collana dei Legal Working Paper della Bce, è ancora di grande attualità e costituisce una pietra miliare ineguagliata negli studi sulla materia. Athanassiou ribadisce al Foglio che “il saggio riflette esclusivamente le opinioni del suo autore”. Ma malgrè lui esso è stato citato più volte, per esempio con riferimento al caso greco, come lo studio più vicino alla posizione ufficiale di Francoforte dalla cancelliera Angela Merkel, dall’ex presidente della Commissione di Bruxelles, José Manuel Barroso e da altri esponenti europei di spicco.

 

Il punto chiave nelle questioni relative a una euro exit, spiega Athanassiou nel suo lavoro, non riguarda solo “la legione di complessità legali ed economiche” che il paese uscente dovrebbe affrontare, ma il fatto che “dal punto di vista strettamente legale non si può uscire unilateralmente dall’euro senza uscire anche dalla Unione”.

L’adesione alla moneta unica, in altre parole, è stata concepita, piaccia o no, come un matrimonio senza possibilità di divorzio. La questione ha risvolti un po’ tecnici ma è cruciale per comprendere cosa si pensa alla Bce. I Trattati europei non dicono nulla né sul se né sul come una uscita unilaterale dall’euro sia possibile. Fino al Trattato di Lisbona entrato in vigore nel 2009 erano silenti anche sulle modalità di un ritiro dalla Ue. Quest’ultimo ne ha poi regolato le procedure (e con esse avverrà la Brexit) continuando tuttavia a non esprimersi sul se e il come di un eventuale ritiro unilaterale dall’Unione monetaria. Ai giuristi non è rimasto quindi che “dedurre logicamente” una conclusione sul punto dall’analisi delle disposizioni complessive dell’insieme dei Trattati.

 

Il fatto, per esempio, che le norme che regolano l’Unione monetaria e la Bce siano contenute in un protocollo aggiuntivo dei Trattati stessi, il fatto che in esse non vi sia alcun riferimento a una possibilità di ritiro, il fatto che l’adesione all’Unione europea ma non alla moneta unica di paesi come il Regno Unito e la Danimarca abbia incluso comunque la previsione di un ingresso futuro nell’euro ancorché senza determinarne la data; tutte queste circostanze sono la prova giuridica per Athanassiou del legame indissolubile tra adesione alla Ue e alla moneta unica. Certo, “di fronte alla ferrea determinazione di uno stato sovrano” lo sganciamento di un paese membro – una Italexit, una Grexit o perfino una Frexit – non potrebbe essere impedito anche se non previsto dai Trattati. Sarà lo stato uscente ad assumersi le conseguenze sul piano reputazionale della violazione dei patti. Mancando le basi legali della fuoriuscita, tuttavia, un eventuale euro exit dovrebbe passare attraverso un complesso e incerto – come può esserlo un viaggio in terra incognita – negoziato con la Commissione e la Bce.

 

Del resto anche la Costituzione americana proibisce l’uscita unilaterale di un suo membro dalla federazione: una successiva sentenza del 1868 della Suprema Corte del Texas l’ha ritenuta possibile, ma solo con l’accordo degli altri stati.

 

In ogni caso, al di là di queste tecnicalità, le implicazioni economiche e legali dell’uscita da un matrimonio concepito come indissolubile sarebbero gigantesche. Athanassiou cita tra le complessità più immediate da affrontare il ritorno alla moneta nazionale, l’uscita dall’Eurosistema della Banca centrale del paese che si chiama fuori, il regolamento delle partite finanziarie esistenti tra la Bce e la banca centrale del paese medesimo. Nel caso italiano, questo significherebbe la liquidazione da parte della Eurotower della quota di Banca d’Italia nel suo capitale (poco più di un miliardo) e della quota di riserve ufficiali di pertinenza italiana detenute da Francoforte (poco più di 10 miliardi secondo stime). Nel caso di Italexit tuttavia a questi introiti si contrapporrebbe la necessità, ricordata di recente da Mario Draghi con una chiara finalità preventiva, di regolare la posizione deficitaria per 358 miliardi di Via Nazionale verso la Bce all’interno del sistema di pagamenti Target 2. Gli istituti di credito del paese uscente inoltre finirebbero nell’occhio del ciclone.

 

Secondo uno studio della banca centrale d’Austria, se un paese membro uscisse dalla moneta unica, il suo sistema del credito avrebbe difficoltà a rimborsare le sue  passività in euro, perché la Banca centrale nazionale potrebbe finanziarlo nella nuova moneta mentre esso troverebbe difficile reperire fondi in euro sul mercato dei capitali. E’ la lezione argentina. L’abbandono da parte del paese latino americano dal dollar pegging nel 2002 – l’ancoraggio al dollaro – provocò nel giro di qualche settimana il collasso delle sue banche.

 

Athanassiou nel suo saggio cita le problematiche derivanti dalla “ridenominazione dei contratti” nella nuova valuta. I bond emessi dalle banche e dalle imprese regolati dalla normativa nazionale potrebbero essere ridenominati nella nuova valuta, ma quelli emessi per esempio sotto il cappello del diritto olandese o lussemburghese – una pratica molto usata dalle grandi istituzioni finanziarie e dalle grandi corporations – dovrebbero essere rimborsati in una moneta, l’euro, enormemente rivalutata aprendo potenziali voragini nei bilanci societari.

 

Uno studio del Center for Economic Policy Research (Cepr) ha appunto calcolato che nel caso francese questo potrebbe obbligare lo stato a intervenire per salvare alcune grandi aziende d’Oltralpe: nel caso di una svalutazione del 50 per cento del franco il costo dell’intervento potrebbe essere di 70 miliardi. Il debito pubblico posseduto dai residenti interni infine potrebbe in teoria essere convertito nella moneta nazionale, ma una eventuale ridenominazione nella valuta nazionale svalutata del debito detenuto dai residenti esteri precluderebbe qualunque ricorso dello stato al mercato internazionale per anni. Con l’ingresso nell’euro insomma abbiamo comprato un biglietto che appare senza ritorno. Auguri agli eurodelusi d’Italia.

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