Dove cascano i no euro
Un rapporto Mediobanca eccita gli eurocontrari ma (in realtà) dice che l’Italexit è una débâcle
Uno studio di Mediobanca Securities, ufficio studi londinese della banca d’affari di Piazzetta Cuccia, è diventato nei giorni scorsi controversa materia di dibattito dopo che venerdì il Giornale con un articolo del vicedirettore Nicola Porro dal titolo sensazionalistico, com’è nello stile del quotidiano (“Uscire dall’euro ci fa risparmiare 8 miliardi” – solo?, verrebbe da dire), faceva intendere che l’uscita dall’euro produrrebbe per l’Italia un guadagno e quindi il paese sarebbe incentivato ad abbandonare l’Eurozona, l’unica unione monetaria nella storia in cui coesistono paesi con una moneta comune e bilanci indipendenti.
Ebbene il report, per cui è responsabile l’analista Antonio Guglielmi, è probabilmente il primo tentativo di una banca italiana di identificare, con un esercizio numerico – senza pretesa di entrare nel labirinto della macroeconomia – i costi e i benefici di una ridenominazione del debito pubblico in caso di uscita. E quindi sapere se esiste (e se esiste ancora) un incentivo a farlo, come appunto sostengono senza serie prove a conforto i partiti sovranisti e anti euro Movimento 5 stelle di Beppe Grillo e Lega di Matteo Salvini.
Il rapporto ai clienti uscito il 19 gennaio nasce dall’esigenza degli investitori, con cui Mediobanca si confronta quotidianamente, di approfondire il tema visto che tra novembre e dicembre dello scorso anno – a ridosso del referendum Costituzionale, poi perso da Matteo Renzi con relative dimissioni, e del prestito pubblico del Monte dei Paschi di Siena, poi accordato sotto Natale dal governo Gentiloni – le probabilità di uscita dell’Italia erano (al 19 per cento) ai massimi rispetto alla media dei dieci anni precedenti, secondo l’indice Sentix di Bloomberg che valuta il sentimento degli operatori di mercato rispetto ad un rischio di uscita dall’Eurozona.
Secondo il Giornale, anch’esso criticato in questi giorni sulla blogosfera, e con molta enfasi partigiana, il passaggio dall’euro alla lira ci farebbe dunque “risparmiare da subito 8 miliardi”, titolo furbo ma fuorviante. Ebbene non è proprio così, anzi.
Il rapporto di Gugliemi, stimato nell’ambiente per essere affidabile e attento, è chiaro fin dal titolo – “Re-denomination risk down as time goes by”, “Il rischio di una ridenominazione della valuta (ovvero dell’uscita dall’euro) scende mano a mano che il tempo passa” – e nello svolgimento sostiene che lasciare l’Unione monetaria e adottare una nuova valuta (un ritorno alla lira) svalutata del 30 per cento (come cifra ipotetica, altri sostengono sia troppo, altri sostengono sia eccessivo) “non comporterebbe più alcun beneficio sul debito pubblico” ma perdite sotto vari aspetti cruciali. Si avrebbero perdite complessive per 280 miliardi di euro al 2022. Su 2 mila miliardi di debito italiano in circolazione con qualsiasi svalutazione, sostiene Guglielmi, non ci sarebbe nessun beneficio. Secondo Mediobanca si avrebbero: perdite sui titoli di stato sotto diritto estero (48 miliardi) che non si possono ridenominare in valuta locale ma vanno ripagati al possessore; titoli di stato vincolati al regime delle Clausole di azione collettiva (Cacs, per 902 miliardi) che tutelano gli investitori in titoli sovrani (con scadenza superiore a un anno) e che mano a mano interesseranno tutto lo stock di debito sul mercato al 2022; i titoli comprati dalla Banca centrale europea (210 miliardi) con il Quantitative easing; i derivati contratti da banche e enti pubblici (151 miliardi) che sono sotto diritto inglese e che verrebbero chiusi immediatamente dalle controparti comportando perdite secche per 37 miliardi. Il totale di perdite stimate arriva dunque a 280 miliardi a fronte di un beneficio bassissimo sulla parte ridenominabile del debito (non sottoposta alle Cacs) lasciando un guadagno di miseri 8 miliardi netti (poco meno dell’aumento di capitale di Mps), con rischi però enormi.
Il beneficio, come afferma Mediobanca, è dunque oramai annullato – non ci sarebbe incentivo – ma (sempre per via delle Cacs) crescenti oneri di 70 miliardi l’anno.
A eccitare gli animi dei “no euro” con il pallino del complottismo ci sono altri due particolari. Gugliemi s’è avvalso della collaborazione di un suo ex compagno di Università in Bocconi, Marcello Minenna (noto per essere l’ex assessore al bilancio della giunta pentastellata di Virginia Raggi a Roma) perché è professore aggiunto alla London Graduate School of Mathematical Finance (per questo è meno noto) perché serviva d’aiuto nelle parti più tecniche. È poi citato il professore più anti euro in circolazione, Alberto Bagnai, ma solo per dei credits sui suoi grafici circa gli effetti prodotti (benefici) alla competitività della manifattura italiana dal gap, in rapido ampliamento, tra la disinflazione nazionale e l’arrembante inflazione tedesca. Una svalutazione competitiva (senza sovranità monetaria), l’unico modo in cui l’industria italiana si mantiene in scia dei suoi pari.
Questa divergenza positiva per l’Italia infatti non durerà per sempre: l’inflazione in Germania è ormai vicina al 2 per cento – target statutario della Banca centrale europea – e per il ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble ciò costituisce “un problema politico” verso le elezioni di autunno. Se la Bce vuole raggiungere un tasso del 2 per cento di inflazione nell’area euro alcuni paesi andranno sopra il limite, mentre altri resteranno sotto. E questo potrebbe motivare la Germania a non fare più la locomotiva che trascina faticosamente i paesi deboli d’Europa. Che l’Italia esca dall’euro pare una opzione più remota rispetto a quella che sia la Germania a divincolarsi dall’unione, come da tempo sostengono alcuni top manager di stanza a Francoforte e, più di recente, il decano dei consulenti d’affari Roland Berger. A scendere dal carro solitamente non sono gli ospiti più deboli, ma quelli che se lo possono permettere.