L'Intesa infernale
Analisti, banchieri e stampa sono scettici sul deal Intesa-Generali. La via che porta a Mediobanca
Roma. Sulla proposta di fusione con Generali – che il cda discuterà a due settimane dall’uscita dei rumor sulla stampa – il ceo di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, si gioca una carriera da banchiere accorto. Secondo Messina, aggredire il bastione del capitalismo italiano è un investimento opportunistico e potente (al netto della difesa del tricolore) per le possibili sinergie nel risparmio gestito e nel private banking grazie all’uso della rete globale di Generali. Tuttavia, una fusione appare complessa e sconsigliabile, secondo molti osservatori. Il che potrebbe spingere la banca milanese a riflettere e a puntare invece verso l’azionista di controllo dell’assicurazione triestina, Mediobanca, di cui è storica nemica. Nel mondo degli affari non sono pochi a vedere una logica maggiore e più semplice nell’unione tra le banche rivali, come furono Sparta e Atene, anziché l’impegnativo arrembaggio al Leone, sostengono per esempio gli analisti di Equita Sim e di Banca Akros. Il takeover di Intesa insieme al colosso assicurativo tedesco Allianz, di cui si parla, è giudicato critico per i problemi di Antitrust che emergerebbero subito dopo l’accordo. Per esempio Intesa-Generali occuperebbe il 34 per cento delle quote di mercato nelle assicurazioni sulla vita, soffocando Unipol (22). L’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni (Ivass) e la Banca d’Italia non sono state contattate da Intesa (è successo il contrario) e potrebbero accendere molti semafori rossi.
Allianz incontrerebbe altrettanti guai con i regolatori locali se dovesse ricevere gli asset francesi e tedeschi di Generali, dice la tedesca Bankhaus Lampe. Il capo della Vigilanza della Banca centrale europea, Danièle Nouy, è poi critica del cosiddetto “Danish compromise”, pratica che permette di trattare gli investimenti assicurativi come attivi ponderati per il rischio, anziché dedurli dal capitale, e che farebbe aumentare i ratio patrimoniali di Intesa a un superlativo 15 per cento da un notevole 13. Anche Mediobanca ora ne approfitta. Secondo Reuters, scettica su un’operazione pasticciata, “una linea dura di Francoforte è la migliore occasione di restare single” per Generali. Senza contare che Intesa dopo la fusione assumerebbe dimensioni di rilevanza sistemica globale e dovrebbe soddisfare criteri di vigilanza più severi. Molti esperti concordano sul fatto che la politica paternalistica di dividendi offerta finora da Intesa sia al capolinea e che la proposta di fusione ne sia la prova, dice Autonomous. Negli anni scorsi, Intesa ha dismesso asset per elargire dividendi ai soci e, dopo avere perseguito una strategia di crescita, ora lancia un’impegnativa acquisizione per “coprire temporaneamente le crepe nel muro con la carta da parati”, dice un trader di Berenberg Bank, come altri hanno fatto in passato. Anche Patrick Jenkins, top columnist del Financial Times, ha una sensazione di déjà-vu e scrive che Intesa “rischia di replicare il peggiore deal nella storia”, l’acquisizione della olandese Abn Amro da parte di Royal Bank of Scotland del 2007, finito male. Le similitudini sono molte: cattive condizioni di mercato, dannata complessità, ostilità della società aggredita (Generali s’è opposta) e identico consigliere. Ovvero Andrea Orcel, banchiere d’area cattolica, all’epoca a Merrill Lynch, oggi a Ubs, e già advisor dell’insensato merger Antonveneta-Mps. Lo chiamavano “Ronaldo dei banchieri”. Ma i palloni più grossi li ha spediti in tribuna.